Flobert, la fabbrica che polverizzò i suoi operai

Chi muore sotto le case di cartone e chi muore sotto le macerie di una fabbrica illegale di fuochi di artificio, cosi’ vogliamo ricordare i nostri morti i 5 licenziati fiat Molti giovani non conoscono il fatto.Ripubblichiamo un articolo di Sara Picardo del 11 aprile 2011 pubblicato su rassegna.it 11 aprile 1975. Passata ora di pranzo. A Sant’Anastasia, in provincia di Napoli, si sente un boato. La fabbrica Flobert, che produce proiettili d’arma giocattolo e fuochi d’artificio, è esplosa. Dodici le vittime, tutte giovani. I capannoni erano situati in contrada Romani, alle pendici del Monte Somma, nel vesuviano. Sono […]
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Chi muore sotto le case di cartone e chi muore sotto le macerie di una fabbrica illegale di fuochi di artificio, cosi’ vogliamo ricordare i nostri morti
i 5 licenziati fiat

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Molti giovani non conoscono il fatto.Ripubblichiamo un articolo di Sara Picardo del 11 aprile 2011 pubblicato su rassegna.it

11 aprile 1975. Passata ora di pranzo. A Sant’Anastasia, in provincia di Napoli, si sente un boato. La fabbrica Flobert, che produce proiettili d’arma giocattolo e fuochi d’artificio, è esplosa. Dodici le vittime, tutte giovani. I capannoni erano situati in contrada Romani, alle pendici del Monte Somma, nel vesuviano. Sono tanti ad accorrere sul luogo della sciagura. Molti temono per la vita dei propri cari. “Nun se capette ‘niente”, dirà Ciro Liguoro, uno dei sopravvissuti. E niente si capirà per molto tempo ancora.

Era un venerdì come tanti. Al lavoro quel giorno si trovavano sessanta persone, molte donne, più remissive, con le mani più piccole degli uomini e dunque più adatte ad inserire polvere da sparo nei proiettili di gomma. Nel reparto dove scoppia la scintilla che causerà la deflagrazione si trovano tredici operai, maschi, e circa 200mila cartucce, che per mesi verranno ritrovate per le vie del paese dai bambini che si divertivano a farle scoppiare. Dodici di loro muoiono sul colpo, solo uno si salva per miracolo. Cinque donne e cinque uomini subiranno gravi ferite. Pezzi dei loro corpi appaiono a 100 metri di distanza, di uno non si ritroverà nemmeno più il corpo. Due cadaveri carbonizzati verranno trovati dai primi soccorritori aggrappati a una rete, nel vano tentativo di scappare.

Venivano tutti da paesi confinanti: Sant’Anastia, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Pomigliano D’Arco, Cercola, San Sebastiano al Vesuvio, Portici. Si conoscevano tutti: Giuseppe Mosca, 20 anni, Antonio Tramontano, 21 anni, Giuseppe Sorrentino, 22 anni, Antonio Savarese, 23 anni, Mariano Barra, 24 anni, Giovanni Esposito, 25 anni, Antonio Frasca, 25 anni, Michele Allocca, 32 anni, Michele Esposito, 34 anni, Giovanni Caruso, 35 anni, Giovanni Cerciello, 39 anni, Vincenzo Florio, 42 anni.

Dieci degli operai scomparsi avevano iniziato a lavorare solo due settimane prima. Molte delle 60 persone presenti lavoravano in nero in capannoni di legno e lamiera, privi delle più basilari norme di sicurezza. Alcuni degli operai risulteranno assunti solo 5 giorni prima dell’incidente. All’inizio si pensa che a far scattare la scintilla sia stata una cicca di sigaretta lasciata cadere da un operaio. Non è così: le inchieste successive ipotizzeranno che la causa siano alcune sostanze proibite contenute nella miscela utilizzata durante la lavorazione.

Il padrone ci aveva chiamato negli uffici pochi giorni prima per dirci che avevamo il posto di lavoro, eravamo tutti giovani e contenti. Però, ci disse, c’è una cosa – racconta Liguori in un documentario dal titolo A’ Flobert (ma pecchè per faticà pure a morte amm’affruntà) di M. Gibo Gibertini del gruppo Le Nacchere Rosse – una cosa da niente, disse. Dovete costruire dei proiettili per le pistole Flobert. Però ci assicurò che non c’era nessun problema”. Pochi giorni dopo lo scoppio non c’era più nulla. Solo silenzio. Odore di morte. I funerali si tennero nella Casa del Pellegrino all’interno del Santuario della Madonna dell’Arco. Tanti gli operai presenti. I pianti dei familiari delle vittime riempiono l’aria. Dei camion militari trasporteranno le dodici bare al cimitero del paese, dove tutt’ora si trova una lapide, ormai logora e vecchia, con su scritto: Pagarono con la vita il pane, la pietà del popolo li volle qui riuniti.

Una donna, che allora era poco più di una bambina e lavorava già nella fabbrica, racconta che il proprietario è morto di vecchiaia. Lei si chiama Immacolata Russo e per puro caso fu sostituita da un giovane di cui non ha mai saputo il nome, che morirà al suo posto. Imma racconterà anni dopo, in una bella intervista a Girolamo De Simone, quale era il suo lavoro: “Preparavo gli ‘scatolini’, quelli con le munizioni per le armi giocattolo. La caposquadra si chiamava Rosa, mi chiese ‘vuoi andare sulla macchina dei guagliuni?’, cioè dove lavoravano i maschi, ma io le dissi che non sapevo usare le macchine, che non le avevo mai viste…, ma lei ribadì ‘tu non devi fare niente, devi solo guardare’… Li metteva a lavorare così, senza preparazione. Erano quasi tutti nuovi quelli che morirono. Il padrone mi pagava milleduecento lire al giorno. A me doveva dare ventimila lire al mese, perché ero l’ultima arrivata, ma agli altri dava qualcosa in più”.

Lui si chiamava Emanuele, era di Cercola – prosegue il racconto di Immacolata. È morto di vecchiaia. A volte non ci pagava neppure: faceva freddo, ci dava il panettone di Natale e non ci dava i soldi. E noi come e puverelle là fora, ce mureveme e friddo e chillo nun ce vuleva dà i soldi… Non ci teneva a posto, ma so che lui voleva farlo, perché la fabbrica si era ingrandita. Ma poi scoppiò e basta. Finì tutto. Fui nella stanza tutta la mattina, fino all’ora di pranzo, quando andammo a mangiare. Al ritorno il mio posto fu preso da un giovane, ed io ebbi il tempo di tornare nel capannone, sedermi e poi… scoppiò tutto. Scappavano, urlavano, c’era chi sveniva, c’era anche una donna incinta di Pomigliano, che venne meno, cadde a terra e poi non si capì nulla, una tragedia. Ricordo anche un ragazzo di diciotto anni, stava portando tra le mani una bacinella con la polvere da sparo: fece una lampa. Se non sono morta allora, non morirò più: dovevo morire io al posto di quel giovane, ma non c’era una fossa per me. Io me ne andai, lui si mise al posto mio, e morì: non so nemmeno il suo nome. Sono passati trent’anni, ma non ne conosco ancora il nome”.

Era l’11 aprile del 1975. Ad ottobre dello stesso anno gli E-Zezi, gruppo operaio di Pomigliano canterà alla Festa dell’Unità una canzone rimasta indelebile nella memoria, A’ Flobert, conosciuta però come Sant’Anastasia. Un canto di morte e memoria. Un pianto sulle tombe di quei dodici operai, brandelli di corpi riuniti in un unico “tavuto”, una lapide posta sulle migliaia di vittime del lavoro che ogni anno fanno vergognare il nostro paese, ma non i responsabili di tanta tragedia.

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