DALLE SCONFITTE SI PUÒ SEMPRE IMPARARE

Un ricordo sull’esperienza della lotta contro la chiusura della SEVEL di Pomigliano: la resistenza operaia, gli abbagli dei sindacalisti sui pellegrinaggi al Ministero a Roma, l’assenza di un’organizzazione indipendente dal basso degli operai.
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Un ricordo sull’esperienza della lotta contro la chiusura della SEVEL di Pomigliano: la resistenza operaia, gli abbagli dei sindacalisti sui pellegrinaggi al Ministero a Roma, l’assenza di un’organizzazione indipendente dal basso degli operai.


 

Se gli operai non si muovono andranno sempre peggio. Affidarsi al sindacato in generale non cambia la situazione. Bisogna organizzarsi dal basso e imporre cosa fare per difendere i nostri interessi agli stessi sindacalisti. Adesso che la maggior parte di essi è completamente asservita all’azienda e gli altri sono restii a mobilitare direttamente gli operai, preferendo chiamare in causa i politici per difendere “le politiche industriali”, anche quelli “combattivi” non sono una sicurezza, affidandosi al massimo alle “cause legali”, arma ormai completamente spuntata, visti gli indirizzi ormai sfacciatamente filo aziendali della magistratura.
Ricordo a riguardo l’esperienza della Sevel di Pomigliano che fu chiusa per concentrare la produzione dei furgoni ad Atessa. Allora eravamo ancora una forza e i sindacati non si erano ancora arresi completamente alle politiche aziendali sentendo il nostro fiato sul collo. Eppure perdemmo perché mancammo di un’organizzazione nostra, dal basso, per gestire la lotta.
A marzo 1994 la Fiat decise di chiudere Sevel Campania. Le lotte erano già iniziate tempo prima, nel 1993. Ripetute assemblee in fabbrica, scioperi con cortei per la città. Anche gli impiegati parteciparono. L’ultimatum era marzo 1994.
Lotte molto incisive, tutti uniti, la Fiom guidava la lotta.
Riuscimmo con il blocco dei treni a Napoli centrale a dividere l’Italia intera bloccando i treni in partenza. Tutti i media nazionali parlavano della nostra lotta. Man mano si riduceva la produzione, le bilancelle, che trasportavano la scocca dei furgoni Talento Ducato, si alternavano 2 vuote e una col furgone e, poi 5 vuote e una col furgone. Non volevamo perdere quella fabbrica e iniziammo a colpire il padrone dove era più sensibile, il profitto. Bloccammo per 5 giorni il treno che trasportava le auto prodotte dalla vicina Alfa, immobilizzando per giorni centinaia di milioni di lire di merci.
Ma la Fiat non cedeva e per questo accettammo, sbagliando, il dirottamento su un altro obiettivo, direzione Montecitorio, Roma. Tutti i 1150 operai e impiegati a pressare sui politici. La polizia presente massicciamente ci bloccò senza vie d’uscita, se avessimo reagito ci sarebbe stato lo scontro frontale. La Fiom si accontentò del fatto che la nostra vicenda era “arrivata in Parlamento”, e ci disse di aspettare.
Riprendemmo a lavorare, due settimane di lavoro e due in cassa integrazione. Stavamo per arrivare a marzo. A un certo punto i sindacalisti ci comunicarono che la Fiat si prendeva altri due mesi. In realtà alla Fiat servivano altri due mesi per completare gli impianti a Val di Sangro.
Lì ci facemmo fregare definitivamente. Continuammo a lavorare fino alla fine aspettando una soluzione da politici e sindacalisti. Alla fine la fabbrica chiuse e molti di noi furono trasferiti nella grande fabbrica di Pomigliano, o nelle unità distaccate, le famose UPA, che furono poi tutte chiuse.
Sbagliammo a fidarci e a non organizzarci come operai, autonomamente. Non dovevamo riprendere la produzione, non dovevamo sbloccare il treno delle Alfa, non dovevamo abbandonare la fabbrica, il nostro terreno ideale di lotta, per manifestare principalmente fuori.
Pressata sulla produzione la Fiat era costretta a sentirci. Bisognava resistere un giorno in più del padrone, uniti come classe come quando costringemmo l’azienda a ritirare immediatamente il licenziamento per rappresaglia di un nostro compagno.
Invece dietro alle mediazioni dei sindacalisti perdemmo.
Questi ricordi siano un esempio per gli operai di Pomigliano oggi.
Senza una nostra organizzazione veramente indipendente come operai non abbiamo scampo.
Un pensionato ex operaio Sevel

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