MEGLIO STARE SUL DIVANO

I portavoce dei capitalisti dell’agricoltura e del turismo accusano i giovani di approfittare del reddito di cittadinanza per restare sul divano. Per questi la gioventù dovrebbe prestarsi a lavorare dodici e più ore al giorno senza diritti e per un salario da fame. Vadano loro a lavorare in queste condizioni.
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I portavoce dei capitalisti dell’agricoltura e del turismo accusano i giovani di approfittare del reddito di cittadinanza per restare sul divano. Per questi la gioventù dovrebbe prestarsi a lavorare dodici e più ore al giorno senza diritti e per un salario da fame. Vadano loro a lavorare in queste condizioni.


 

In Italia manca manodopera stagionale, sia specializzata sia generica. Mancano braccianti per le grandi raccolte in agricoltura. Mancano addetti temporanei per pizzerie, ristoranti, campeggi, alberghi e agriturismi. Quella forza-lavoro manuale, sempre tanto ignorata o bistrattata, offesa e sfruttata, adesso viene riscoperta nella sua importanza sociale, non però a vantaggio della collettività, ma per la realizzazione del profitto da parte dei padroni. Senza quelli che si alzano la mattina presto e vendono per ore, nelle condizioni più faticose, la forza delle proprie braccia in cambio di un modesto salario, il processo di formazione e di accumulazione del profitto si inceppa, si blocca. Per i padroni la mancanza, alle loro condizioni, di manodopera disponibile a farsi sfruttare per quattro soldi è una sciagura a cui bisogna porre subito rimedio.
I capitalisti agrari e quelli del turismo dicono che gli immigrati disponibili sono pochi, quelli sul cui lavoro sfruttato hanno accumulato ogni anno fortune sono ancora parzialmente bloccati dalle restrizioni anti-Covid-19: perciò invocano l’immediato rilascio dei nulla osta necessari per consentire ai braccianti extracomunitari, ammessi all’ingresso con il decreto flussi, di poter arrivare quanto prima in Italia. Accusano gli italiani di non voler più lavorare nei campi e nelle strutture turistiche e di preferire il reddito di cittadinanza piuttosto che raccogliere fragole o fare le pulizie in un albergo. Sostengono che forse è il caso di ricorrere alle donne ucraine rifugiate in Italia e quindi chiedono di snellire quanto prima gli attuali, troppi, impedimenti burocratici. Di questo passo, aggiungono minacciando sventura per sé e per il mondo intero, la frutta rimarrà sulle piante e le strutture turistiche resteranno chiuse. È, questo, un allarme che, da settimane, ossessivamente ripetono. Un ritornello rilanciato da tutti i media nazionali, dai giornali ai social, dalle televisioni alle radio, ripreso e fatto proprio da tutti i politici che chiedono o, con varie sfumature, una riforma restrittiva del reddito di cittadinanza o la sua immediata cancellazione (Italia Viva sta raccogliendo le firme per proporre un referendum che lo elimini).
I padroni dell’agricoltura e del turismo lamentano la difficoltà di trovare lavoratori stagionali nonostante, dicono, offrano “regolari contratti”. I giornalisti e i politici, che non hanno mai messo piede per lavorarci in una serra di fragole o in un tendone di uva da tavola o nella cucina di un ristorante, si rivoltano contro “gli scansafatiche che vivono a spese dello Stato”. I benpensanti, in Italia una “categoria” storicamente sempre numerosa e particolarmente proterva, che affonda la sua base sociale nell’ampia presenza di una piccola e media borghesia bigotta, arrogante e corrotta, anche in questa circostanza, solleticati nei loro umori più veri e più neri, si indignano e invocano soluzioni “perché così non si può più andare avanti!”.
Ma chi per vivere piega la schiena sotto il sole impietoso nei campi o nelle bollenti cucine dei ristoranti, sotto la sferza del padrone o dei suoi scherani che gli ringhiano addosso, che cosa dice? Dice che, se potesse, farebbe a meno di sgobbare per un padrone. Che fa quel lavoro solo perché è costretto a farlo, per mangiare, perché i soldi sono sempre pochi e non bastano mai per sopravvivere. Che non ritiene quello che fa un lavoro dignitoso per un essere umano e che non ha trovato di meglio. Questo è ciò che padroni, politici, giornalisti e loro amici non vogliono ascoltare, perché è la pura verità per chi l’ha sperimentata sulla propria pelle e per chi ha l’onestà di vederla e capirla. Anzi, scendendo più nello specifico, i braccianti, migranti o italiani, che per lavorare nei campi dell’Agro Pontino, nelle serre della Piana metapontina, nei tendoni pugliesi e siciliani, nelle terre coltivate a meloni e angurie, pomodori, asparagi e carciofi dal Veneto alla Calabria, dall’Emilia-Romagna alla Puglia, devono ricorrere a un caporale e sottoporsi alle angherie sue e del padrone, dicono che quella condizione di vita è autentico schiavismo, che la si “accetta” in mancanza di altro. Così i lavoratori stagionali del turismo denunciano (come in una recente inchiesta de “Il Fatto Quotidiano”) le condizioni di lavoro durissime a cui sono sottoposti da Nord a Sud, nella “filiera del caporalato dal campo alla tavola”, secondo la definizione di uno stagionale: giornate lavorative di 12 ore, senza ferie e giorni di riposo, con pause di pochi minuti e compensi di pochi euro all’ora, tutti o in parte in nero, e l’ammonimento, a chi alza la voce: “O così o niente! Fuori dalla porta c’è la fila!”.
Queste denunce di sfruttamento rispecchiano la realtà del lavoro stagionale nei campi e nelle strutture turistiche oggi come 20 o 10 anni fa. Ma adesso c’è qualcosa in più. Il conflitto di classe che naturalmente sottende a questo pezzo della struttura economica e sociale italiana si è inasprito. Dopo la pandemia i padroni dell’agricoltura e del turismo vogliono rifarsi di ciò che hanno perduto. I primi sono in guerra con la grande distribuzione e quanti altri detengono le leve del commercio dei prodotti agricoli. I secondi sono in guerra fra loro per accaparrarsi i clienti a prezzi quanto più convenienti. Gli uni e gli altri cercano di salvarsi peggiorando le condizioni di lavoro dei dipendenti e schiacciando i salari ai livelli più bassi possibili. D’altra parte, però, molti giovani proletari, che hanno sempre costituito per i padroni la manovalanza a cui attingere per i lavori stagionali nell’agricoltura e nel turismo, forti anche di un più alto e diffuso tasso di scolarizzazione, non sono disposti a sopportare condizioni di lavoro inumane ed esigono che il loro lavoro venga pagato secondo legge. Perciò vengono accusati da padroni, politici, giornalisti e altri sostenitori degli interessi dei capitalisti di essere svogliati, vagabondi e poco o per nulla collaborativi. La lagna, assillante, è sempre la stessa: “Non vogliono fare la gavetta! Preferiscono percepire il reddito di cittadinanza e stare sul divano!”. Alla quale si accompagnano le accuse di truffe allo Stato a chi lo percepirebbe senza averne diritto. Padroni e loro corifei sanno bene che il reddito di cittadinanza medio è di appena 500 euro e viene percepito quasi soltanto da famiglie numerose e pensionati per integrare miseri salari e pensioni sotto il livello di povertà e che i truffatori sono meno dell’1%. Ma si ostinano nelle menzogne perché il loro sogno è un mercato delle braccia privo di ogni freno normativo e salariale, in cui tutti i potenziali operai/braccianti/inservienti siano continuamente ricattabili, ridotti al livello degli invisibili migranti che vivono di lavoro nero e privi di qualsiasi forma di tutela contrattuale.
L.R.

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