KARL MARX – “SALARIO, PREZZO E PROFITTO”

Seconda parte dell'intervento letto da Marx alla riunione del 27 giugno 1865 del Consiglio Generale dell'Associazione Internazionale degli Operai. Suddivisa da noi in puntate. <font color=red> Ventunesima puntata </font>
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Seconda parte dell’intervento letto da Marx alla riunione del 27 giugno 1865 del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai. Suddivisa da noi in puntate.
Ventunesima puntata


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2. Per quanto riguarda la limitazione della giornata di lavoro in Inghilterra e in tutti gli altri paesi, essa non è mai stata regolata altrimenti che per intervento legislativo. Senza la pressione costante degli operai dall’esterno, questo intervento non si sarebbe mai verificato. Ad ogni modo, il risultato non avrebbe potuto essere raggiunto per via di accordi privati fra gli operai e i capitalisti. È proprio questa necessità di un’azione politica generale che ci fornisce la prova che nella lotta puramente economica il capitale è il più forte.
In quanto al limite del valore del lavoro, la sua determinazione reale dipende sempre dalla domanda e dall’offerta, intendo dire dalla domanda di lavoro da parte del capitale, e dall’offerta di lavoro da parte degli operai. Nei paesi coloniali la legge della domanda e dell’offerta è favorevole all’operaio. Ciò spiega il livello relativamente alto dei salari negli Stati Uniti d’America. In questo paese il capitale può tentare tutto quello che vuole; esso non può impedire che il mercato del lavoro si svuoti continuamente in seguito alla trasformazione continua degli operai salariati in contadini indipendenti, che provvedono a se stessi. La condizione di operaio salariato è per una parte molto grande degli americani soltanto uno stadio transitorio, che essi sicuramente abbandonano dopo un tempo più o meno breve. Per far fronte a questo stato di cose che esiste nelle colonie, il paterno governo britannico ha fatto propria durante un certo periodo di tempo la cosiddetta teoria moderna della colonizzazione, che consiste nell’innalzare artificialmente il prezzo delle terre nelle colonie, per impedire in tal modo la trasformazione troppo rapida dell’operaio salariato in un contadino indipendente.
Passiamo ora ai paesi di vecchia civiltà, nei quali il capitale domina interamente il processo della produzione. Prendiamo, per esempio, l’aumento dei salari degli operai agricoli in Inghilterra dal 1849 al 1859. Quale ne fu la conseguenza? I coltivatori non poterono, come avrebbe consigliato loro il nostro amico Weston, aumentare il valore del grano, e nemmeno i suoi prezzi di mercato. Al contrario, dovettero accomodarsi alla loro caduta. Ma durante questi undici anni essi introdussero ogni sorta di macchine e nuovi metodi scientifici, trasformarono una parte del terreno arato in pascolo, aumentarono le dimensioni delle aziende agricole e perciò il volume della produzione; e con questi e altri mezzi avendo ridotto la domanda di lavoro accrescendone la forza produttiva, fecero sì che la popolazione lavoratrice delle campagne diventò di nuovo relativamente sovrabbondante. È questo il metodo generale secondo il quale, nei paesi vecchi, dove il suolo è occupato, si compiono più o meno rapidamente le reazioni del capitale agli aumenti di salario. Ricardo ha giustamente osservato che la macchina si trova in continua concorrenza col lavoro e spesso può essere introdotta solo quando il prezzo del lavoro ha raggiunto una certa altezza; ma l’adozione della macchina non è che uno dei molti metodi per aumentare la forza produttiva del lavoro. Lo stesso processo che rende relativamente superfluo il lavoro abituale semplifica, d’altra parte, il lavoro qualificato e perciò lo svaluta.
La stessa legge si fa valere anche in un’altra forma. Con lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, l’accumulazione di capitale è molto accelerata, anche malgrado che il livello dei salari sia relativamente alto. Si potrebbe dunque concludere – come ha ritenuto A. Smith, ai tempi del quale l’industria moderna si trovava ancora ai suoi albori – che questa accumulazione accelerata di capitale deve far traboccare la bilancia a favore dell’operaio, in quanto crea una domanda crescente del suo lavoro. Per questa stessa ragione molti scrittori contemporanei si sono meravigliati che, sebbene il capitale inglese sia aumentato in questi ultimi venti anni molto più rapidamente della popolazione inglese, i salari non siano più aumentati. Ma parallelamente all’accumulazione progressiva del capitale ha luogo una modificazione crescente nella composizione del capitale. Quella parte del capitale che è formata da capitale fisso, macchine, materie prime, mezzi di produzione d’ogni genere, aumenta più rapidamente di quell’altra parte del capitale che viene investita in salari, cioè per comperare lavoro. In forma più o meno precisa, questa legge è stata stabilita da Barton, Ricardo, Sismondi, dal professor Richard Jones, del professor Ramsay, da Cherbuliez e altri.
Se il rapporto primitivo fra questi due elementi del capitale era uno a uno, col progredire dell’industria esso diventa cinque a uno, ecc. Se di un capitale globale di seicento, si investono trecento parti in strumenti di lavoro, materie prime, e così via, e trecento in salari, basta raddoppiare il capitale globale per creare una domanda di seicento operai invece che di trecento. Ma se di un capitale di seicento, cinquecento parti sono investite in macchine, materie prime, e così via e soltanto cento in salari, questo capitale deve salire da 600 a 3.600 per creare una domanda di seicento operai invece che di trecento. Con lo sviluppo dell’industria la domanda di lavoro non procede dunque di pari passo con l’accumulazione del capitale. Essa aumenta indubbiamente, ma in proporzione continuamente decrescente rispetto all’aumento del capitale. (continua)

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