OPERAI E PADRONI: SEMPRE LA STESSA MUSICA

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Per l’operaio edile Rajee Kumaran, nativo dell[k] India, Dubai era la citta’ dei sogni. Torri luccicanti, spiagge idilliache, promettenti possibilita’ senza limiti brillavano dalle pagine degli opuscoli di propaganda e da alcune storie raccontate da qualche operaio che tornava a casa. Ma dopo cinque anni di lavoro di 12 ore giornaliere, si e’ accorto del suo tempo di lavoro e di sopravvivere in condizioni squallide, arrivando a malapena alla fine del mese con meno di 200 dollari di salario.

Kumaran, 28 anni, anch[k]egli operaio dell[k]edilizia, racconta che il suo sogno si e’ appannato. “Pensavo che questa fosse la terra delle occasioni, ma sono stato preso in giro”, racconta, mentre sta insieme ad altri lavoratori edili fuori dal loro campo, nel deserto, ai margini della citta’.

Quando nel 2006 centinaia di operai infuriati per i bassi salari e per il trattamento dei capo cantieri di cui sono oggetto, si sono ribellati. Nel cantiere di quello che deve diventare il grattacielo piu’ alto del mondo, non stavano solo esprimendo la crescente insopportabilita’ degli immigranti asiatici, ma anche un primo segnale di che cosa possa diventare la forza lavoro se si organizza.

Lontano dai grattacieli e alberghi di lusso che sono l[k]emblema di Dubai, e delle voglie della borghesia occidentale grande o piccola, questi operai che stanno trasformando la striscia di deserto in una moderna metropoli, vivono in un mondo simile a quello di Londra del 1870, di cui F. Engels ci ha rimasto una insuperabile testimonianza col sul famoso libro [k]la situazione della classe operaia in Inghilterra[k]. Un mondo fatto di campi di baracche affollati, paghe basse, insalubrita’ e disperazione crescente. Quel mondo alla David Copperfield, il romanzo di Charls Dichens del 1850, che descrive con gli occhi di un bambino la [k]Londra laboriosa[k] e gli operai che vivono nella parte della citta’ sudicia e piena di rifiuti. Un mondo uguale a quello in cui vivono gli operai extracomunitari nel nostro paese, assoldati a giornata per lavorare nell[k]agricoltura del 21[k] secolo di un paese democratico, definito piu’ sviluppato e civilizzato e che oscilla tra un governo di destra e uno di sinistra.

Per anni, operai come Kumaran hanno fatto di tutto per cercare lavoro fuori dall[k]India, pagando migliaia di dollari per essere ingaggiati in uno di questi cantieri degli emirati.

Su un milione e mezzo di residenti a Dubai, un milione sono lavoratori immigrati venuti qui a lavorare. La maggior parte lavora nelle costruzioni, e provengono maggiormente dal continente indiano e dalle Filippine.

Con il costo della vita in aumento, molti hanno abbandonato il sogno di tornare a casa con qualche speranza di una migliore sistemazione. La loro situazione e’ molto inferiore agli operai italiani che nel dopoguerra emigrarono in Francia, Germania, ecc,.

Per una parte notevole di questi operai tornare a casa a tasche vuote e’ una vergogna insopportabile, scelgono il suicidio: nel 2005 a Dubai ci sono stati 84 operai che hanno scelto di togliersi la vita, nel 2004 furono 70.

Kumaran, guadagna 150 dollari al mese, a Dubai deve vivere con circa 60 dollari, il resto lo manda a casa. Sessanta dollari, e’ quanto basta a malapena per comprarsi da mangiare, le sigarette, e usare il telefono cellulare di quando in quando per parlare con la famiglia. Ma la cosa che piu’ lo inquieta e’ che non sa come pagare il prestito che ha contratto con l[k]usuraio per venire qui. Figura sociale storica, che non manca mai nonostante la poverta’, e l[k]India non certo puo’ farsela mancare.

L[k]amara conclusione di Kumaran:”Se fossi restato in India a lavorare cosi, avrei potuto guadagnare la stessa somma, e non avrei avuto bisogno del prestito”.

A Settembre 2006 circa mille operai hanno organizzato una protesta marciando lungo la strada principale nel cuore della citta’ e suscitando un dibattito nazionale sul trattamento degli operai immigrati. Sono stati organizzati almeno otto grossi scioperi per rivendicare diritti e stipendi, perche’ spesso non vengono nemmeno pagati. L[k]azione piu’ significativa e’ avvenuta nel cantiere del grattacielo Burj Dubai: centinaia di operai hanno messo in fuga la guardie della sicurezza e fatto irruzione negli uffici, sfasciando computer, sparpagliando documenti, danneggiando automobili e macchinari. Quando sono tornati il giorno successivo, chiedendo paghe e condizioni di lavoro migliori, altre migliaia di lavoratori impegnati nella costruzione del terminal aeroportuale dall[k]altra parte della citta’ hanno incrociato le braccia, unendosi alla stessa rivendicazione.

e’ stato un momento di svolta, gli operai hanno scoperto il valore delle azioni coordinate e organizzate. Le autorita’ sono state costrette a riconoscere che: [k]Se non si risponde a queste proteste rapidamente da parte del governo, di sicuro si danneggera’ la crescita economica del paese”.

I lavoratori non hanno praticamente nessun diritto.

Normalmente i responsabili dei visti e i padroni confiscano i passaporti e i permessi di soggiorno, limitando la liberta’ di movimento e le possibilita’ di denunciare gli abusi.

La gran parte di questi operai versa denaro ai caporali per ottenere un lavoro, una pratica che il governo degli Emirati ha tentato di interrompere. Una volta arrivati qui, non possono lasciare il paese senza il permesso dei padroni, che cosi impediscono che cerchino lavoro altrove.

Il sindacato e’ fuori legge.

I lavoratori non hanno altra possibilita’ che rivolgersi al paternalismo del Ministero del Lavoro.

Il mancato pagamento degli stipendi e’ l[k]abuso piu’ comune. Nei casi peggiori, si aspetta anche piu’ di 10 mesi, specie quando vi sono casi di fallimento, lasciando uomini senza nulla e privi di ogni altra scelta.

Il Ministero del Lavoro degli Emirati ha tentato di affrontare il problema, consentono di cambiare lavoro piu’ facilmente e imponendo sanzioni ai padroni che non versano le paghe.

I lavoratori possono chiamare un numero verde al ministero per esporre le proprie lamentele, su cui si apre un[k]indagine. E gli ispettori ministeriali vanno nei cantieri a verificare. “Sosteniamo i lavoratori e vogliamo tutelare i loro diritti, ma dobbiamo tutelare anche i diritti dei datori di lavoro” dice Ali al-Kaabi, Ministro del lavoro degli Emirati. “Sin quando questi tre fattori sono rispettati, i lavoratori non hanno motivo di protestare. Se hanno lamentele, devono parlare con un supervisore, che riferisce la ministero. Se poi non si interviene, allora hanno diritto alla protesta”.

Ma il numero di operai che si e’ riversata nel paese negli ultimi anni, con 80 ispettori governativi che dovrebbero sovrintendere su circa 200.000 imprese, hanno dimostrato la fumosita’ delle parole del Ministro. Che somiglianza con il nostro paese capitalisticamente piu’ sviluppato! Sono sempre della stessa pasta.

Gli ispettori visitano anche i campi dove vivono gli operai: sui 36 ispezioni ne hanno classificati 27 molto al di sotto dei criteri governativi.
Mentre sale sull[k]autobus diretto al cantiere, come fa ogni mattina escluso il venerdi, Kumaran racconta di guardare con una certa tristezza allo scintillante skyline delle torri di Dubai. “Vorrei che i ricchi capissero chi le sta costruendo, queste torri” dice Kumaran fra i suoi colleghi di lavoro. “Vorrei che venissero a vedere quant[k]e’ triste questa vita”.

Fonte: Internet.

I padroni hanno il potere della geografia, possono delocalizzare le imprese o dare lavoro direttamente nei loro paesi con bassi salari a chi piu’ e’ ricattato dalla sua condizione. Quando gli operai muoiono sul lavoro, hanno la Prosopopea del Lutto, e hanno anche il potere di ingenerare pensieri come quello di Kumaran.

Ma non possono fargli cambiare idea quando arriva alla conclusione che riguarda la sua vita. E questa sara’ una molla in piu’ per sentirsi nuovamente di appartenere ad una sola classe, la classe degli operai che dovranno rimettere la piramide sociale col vertice ficcato in terra, e quando piu’ sprofondera’ il vertice tanto meglio sara’ per l[k]Uguaglianza e la Liberta’.

Elp 5- 2- 08

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