LA STRAGE DEGLI OPERAI DELLA MARLANE

di Francesco Cirillo Praia a Mare – Mentre le ruspe scavano attorno allo stabilimento della Marlane, alla ricerca di rifiuti tossici seppelliti negli anni 80/90 dalla stessa dirigenza della fabbrica, vedo dei fantasmi aggirarsi per tutto il perimetro degli scavi. Riesco a vederli questi fantasmi, perche’ e’ da oltre dieci anni che scrivo di questa fabbrica, degli operai morti, dei loro nomi e cognomi, delle loro famiglie , dei loro figli lasciati senza padre ne’ madre. Li vedo perche’ sono stato al cimitero di Praia con le loro vedove ed i loro mariti. Nomi oramai dimenticati, che si vorrebbe […]
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Volantino Marlane Buono 2

di Francesco Cirillo
Praia a Mare – Mentre le ruspe scavano attorno allo stabilimento della Marlane, alla ricerca di rifiuti tossici seppelliti negli anni 80/90 dalla stessa dirigenza della fabbrica, vedo dei fantasmi aggirarsi per tutto il perimetro degli scavi. Riesco a vederli questi fantasmi, perche’ e’ da oltre dieci anni che scrivo di questa fabbrica, degli operai morti, dei loro nomi e cognomi, delle loro famiglie , dei loro figli lasciati senza padre ne’ madre.

Li vedo perche’ sono stato al cimitero di Praia con le loro vedove ed i loro mariti. Nomi oramai dimenticati, che si vorrebbe seppelliti nell’oblio, ma che sono vivi e vegeti negli operai superstiti e nella coscienza di chi ne ha provocato la loro morte. Alberto Cunto, operaio del coordinamento provinciale dello Slai Cobas ed ex dipendente della Marlane, licenziato per la sua attivita’ politica incessante all’interno della fabbrica del signor cavaliere della repubblica Italiana Marzotto, me ne parla con dolore. Questi fantasmi sono stati tutti amici suoi. Operai con i quali ha condiviso decine di anni di lavoro, gomito a gomito, negli stessi reparti, respirando la stessa aria malefica, gli stessi odori mefitici , persi nella nebbia che all’interno di quel grande scatolone che era la Marlane trovavano quasi ogni mattina. E poi gli scavi.. La magistratura paolana ha aperto finalmente quei cassetti rimasti chiusi per trent’anni. Cassetti che nessuna voleva aprire, perche’ a nessuno faceva comodo la verita’. Perche’ sindacalisti di stato pagati dalla dirigenza ne traevano profitti, perche’ politici di bassa lega la usavano come serbatoio di voti per le loro campagne elettorali, perche’ tecnici compiacenti e dirigenti la usavano come mucca da spremere attingendo a finanziamenti statali ed europei. Dopo le circostanziate denunce prodotte dello SLAI Cobas locale, i primi scavi sono iniziati due anni fa per ordine della Procura di Paola e gia’ dall’ottobre del 2006 hanno portato alla scoperta di materiale considerato tossico e quindi altamente nocivo per la salute e per l’ambiente. Questo primo materiale venne esaminato dall’ARPACAL e dal laboratorio di microscopia elettronica e microanalisi di Cosenza. L’elemento piu’ preoccupante ritrovato nel corso dei saggi di scavo e’ il Cromo VI o esavalente. Questo materiale puo’ provocare la contrazione di linfomi, leucemia e cancro a diversi organi quali al polmone, alle ossa, allo stomaco, alla prostata, ai reni alla vescica ed agli organi genitali, tumori dei quali sono stati colpiti gli oltre cento operai della fabbrica maledetta. Veleni che venivano usati per la coloritura dei filati e dei tessuti. Veleni che erano gia’ a conoscenza di tutti: dall’ASL di Paola, alla magistratura, ai vari sindaci, ai carabinieri, ai vigili urbani ed a tutti coloro che leggevano le denunce che solo un piccolo gruppetto di operai non schierati con i sindacati ufficiali facevano da anni. Erano operai appartenenti allo SLAI COBAS, un piccolo ed agguerrito sindacato, che coraggiosamente denunciava cio’ che avveniva in quella fabbrica della morte. Operai spesso perseguiti dalla dirigenza nel silenzio dei sindacati ufficiali, che invece usufruivano di piccole commesse in piccole aziende parallele dell’indotto. Una fabbrica che dava oltre trecento posti di lavoro, ma che nel contempo uccideva misteriosamente e meticolosamente operai ed operaie. Una strage di oltre cento lavoratori, quasi tutti di Praia e Maratea. Una lista che si allunga anno dopo anno e che solo negli ultimi mesi se ne sono aggiunti altri dieci di nomi; nomi che non compaiono sui giornali, nomi che non fanno notizia, nomi che non compariranno in nessun servizio televisivo. Una strage che la lenta giustizia cerchera’ di riportare a galla se non interverranno le solite burocrazie e le solite lentezze tipiche della nostra macchina giudiziaria. Negli ultimi mesi sono giunte altre denunce e da qualche settimana altri scavi, stavolta con l’ausilio dei mezzi dei Vigili del Fuoco e sotto lo sguardo attento dei tecnici della Procura in tuta bianca. Ora tutta l’area di pertinenza e la stessa fabbrica sono state poste sotto sequestro probatorio. I nomi degli indagati e di coloro che verranno rinviati a giudizio passano di bocca in bocca. Sono i dirigenti dell’azienda. Quelli che dovranno dimostrare davanti al pubblico ministero ed alla corte la loro estraneita’ a quelle morti e difendersi da accuse gravi quali l’omicidio colposo, il disastro ambientale e la mancata prevenzione dagli infortuni sul lavoro. Uno degli indagati e’ oggi sindaco di Praia a Mare, Carlo Lomonaco, che fu anche il penultimo direttore dell’azienda. Gli altri quattro sono tutti ex direttori: Bruno Taricco, Ottavio Panico deceduto sembra per tumore anch’egli, Salvatore Cristallino perito chimico della tintoria e Vincenzo Benincasa quello che si trovo’ davanti “Le Iene”, giunte a Praia a Mare chiamate dagli operai dello Slai Cobas, e che servirono a spalancare il primo squarcio fra le nebbie della tintoria. L’allora sindaco Pratico’ , che aveva lavorato nell’azienda in qualita’ di tecnico e ricoperto il ruolo di sindacalista, si rifiuto’ di farsi intervistare e quindi venne inseguito vanamente per le vie di Praia dal “feroce” Alessandro Sortino. Da quel giorno il cammino della verita’ fu tutto in salita. Mara Malavenda – parlamentare eretica comunista – comincio’ a bombardare il governo con interrogazioni parlamentari, mentre la scure della direzione cominciava a mietere vittime fra gli operai licenziandoli. Ora a giochi aperti qualcuno – da giornalisti silenziosi fino a ieri a studi legali che fanno solo il loro mestiere, a tecnici comunque pagati – si prende meriti che non sono suoi e lo Slai Cobas diffonde un comunicato per chiarire meglio lo sviluppo della vicenda. Sottolineiamo ancora una volta – scrive Alberto Cunto, coordinatore provinciale dello Slai Cobas Marlane Marzotto – che l’intera vicenda e’ stata avviata, gestita e supportata esclusivamente dal sindacato autorganizzato Slai Cobas di Praia a Mare, a stretto contatto con la Procura di Paola alla quale ancora una volta ci sentiamo in dovere di manifestare pubblicamente la nostra fiducia e stima. Nessuno ha l’esclusiva della gestione del caso Marlane e chi immeritatamente crede di averla viene invitato a non perseverare, ricordandogli che la quasi totalita’ dei suoi assistiti gli sono stati procurati proprio dai membri di questo sindacato. Oltre alla struttura indicata negli articoli apparsi sulla stampa locale, sono impegnati a pieno titolo gli studi legali Senatore di Napoli, Gianzi di Roma,Bonofiglio di Cosenza,Branda di Diamante, Stella di Amantea ed Ezio Bonanni di Roma, questi noto anche per la monografia “Lo stato dimentica l’amianto killer” sul ricorso a Strasburgo” sponsorizzato” dallo Slai Cobas”. Uno stuolo di avvocati e tecnici di parte che metteranno definitivamente la parola fine sul silenzio, le omerta’ e le complicita’ che hanno contraddistinto questa azienda, ma e’ giusto che se ci sono meriti da dare questi meriti vadano a coloro, e solo a coloro che per primi , unici e spesso da soli hanno rotto il muro del silenzio. E questi sono gli operai. Una storia di operai lunga trent’anni. Una fabbrica a ciclo completo, dalla lana greggia al prodotto finito. Nei primissimi anni [k]70 la fabbrica venne ristrutturata totalmente ed in tale occasione smantellarono i muri che prima dividevano i vari reparti e tra questi la tintoria che fino ad allora era rimasta isolata dal resto della fabbrica. E cosi la Marlane di Praia a Mare divento’ un unico ambiente. La tessitura e l’orditura che nel ’69 giunsero dalla fabbrica di Maratea, vennero inserite fra la filatura, la tintoria e il finissaggio senza alcuna divisione. Questo voleva dire che i vapori venivano respirati da tutti. Luigi Pacchiano, altro operaio dello Slai cobas, colpito da un tumore alla vescica e per fortuna sopravvissuto, mi disse che addirittura da vari luoghi della Calabria portavano in gita scolastica, in visita istruttiva , alunni di varie scuole superiori e medie, e che spesso alle scolaresche veniva precluso l’ingresso nei reparti a causa della “nebbia” che sprigionandosi dalla tintoria investiva l’intera fabbrica. Chissa’ quanti di questi ragazzi inconsapevolmente hanno respirato quei fumi. Nelle fasi di lavorazione ritenute a rischio quali la tintoria, il finissaggio e la manutenzione, in base a criteri scelti dai dirigenti, a chi lavorava alle macchine dove si usavano prodotti nocivi veniva distribuita precauzionalmente una busta di latte per disintossicarsi. Neanche fosse latte miracoloso! In una situazione grave come ques
ta la fabbrica non subi mai un serio controllo dal punto di vista sanitario. Gli aspiratori c’erano in questo ambiente unico, ma affatto insufficienti per l’efficace ricambio e filtraggio dell’aria “condizionata”. D’estate si lavorava a 40 grandi e piu’ di temperatura ed a volte si sfiorava il 90 per cento d’umidita’. Ad essere privilegiata era la lavorazione mentre gli operai erano subalterni e quindi venivano dopo; in quelle condizioni era quasi impossibile lavorare e spesso qualche operaio piu’ coraggioso organizzava dei microscioperi inducendo l’azienda a permettere l’uscita dalla fabbrica essendo la temperatura esterna piu’ sopportabile di quella interna. Sovente l’interno della fabbrica era contraddistinto da grande quantitativo di polvere in sospensione e fumi al punto che gli operai entrando dicevano, con una piccola dose di ironia,” oggi nebbia in Val Padana “. Il cattivo odore era terribile, La direzione faceva credere agli operai che il fetore proveniva dall’esterno e che non era riferibile ai prodotti usati, difatti quando arrivavano i fusti contenenti sostanze pericolose toglievano le etichette dov’era impresso il teschio di morte ed i responsabili dicevano agli operai di prendere i contenitori secondo i colori esterni. E si andava avanti cosi. La tintoria era composta da tinto pezza e tinto tops. La Marlane lavorava molto per lo Stato e produceva prevalentemente forniture di tessuti militari. Le vasche che tingevano le pezze erano aperte e venivano alimentate con i coloranti immessi manualmente dall’operatore. Una lavorazione fai da te. I responsabili sostenevano che i vapori provenienti dalle vasche venivano aspirati da cappe poste sulle stesse, ma da una brochure diffusa dalla stessa Marlane si puo’ notare che le tanto decantate cappe non sono mai esistite. Nella fabbrica circolava anche amianto utilizzato come coibentante e per la frenatura delle macchine, freni che si usuravano velocemente lasciando depositi di fibre che pulendo il macchinario con l’aria compressa si disperdevano nell’ambiente finendo con l’essere inalate dagli operai; la dirigenza aziendale ha sempre respinto tale ipotesi ma non e’ escluso che scavando attorno alla Marlane possano emergere i residui di tale sostanza. Poi cominciarono i decessi. I primi operai morti risalgono al 1973. Ad essere colpiti furono gli addetti ad una macchina che bruciava la peluria del tessuto usando degli acidi. I due operai, trentenni, addetti a questa macchina sono morti entrambi. Da li in poi di decessi ne sono avvenuti in continuazione . Chi per tumore chi per altro. E quando qualcuno protestava gli s’imponeva il silenzio e di farsi gli affari propri , pena il licenziamento. Gli operai non provenivano tutti da Praia a Mare e quando uno di essi non veniva piu’ visto nei reparti si pensava che si fosse licenziato. Poi inizio’ la lunga catena di funerali. Lo stesso prete di Maratea, Don Vincenzo Iacovino, che officiava tutti questi funerali di operai, in una sua omelia si scaglio’ contro l’azienda urlando dal pulpito ” questa non e’ una fabbrica di lavoro ma di morte”. Cosa che il parroco ripete’ anche nell’intervista a Le Iene. A questo punto, quando le morti cominciarono a moltiplicarsi l’azienda penso’ di mettersi al sicuro da eventuali denunce. E comincio’ a smantellare e rottamare. Inizio’ con la tintoria pezze nel 1990-91 che fu rinnovata completamente , poi tocco’ alla tintoria tops che fu smantellata nella primavera del ’96 ed alla chiusura nella Marlane la tintoria non esisteva piu’. In seguito fu cambiata anche la tipologia di lavorazione. La filatura che aveva fino ad allora lavorato la lana e le miste di terital – il poliestere – e piccole quantita’ di cotone seta ed altre fibre, divenendo la societa’ “enclave” Fili ViVi fu attrezzata per produrre filati per maglieria ed anche in quel caso vi furono operai che si lamentavano per la polvere che si alzava durante la lavorazione e che, occorre ribadirlo, era polvere di materiale di sintesi e quindi molto pericoloso per la salute di chi vi lavora. Parecchie prove sono scomparse e molti operai delusi dai silenzi passati si chiedono se mai oggi la Procura della Repubblica potra’ giungere a qualcosa . Di quella fabbrica non resta che la lunga scia di morti e le testimonianze degli operai sopravvissuti, non fantasmi , che fremono per portare la propria testimonianza e far sentire anche indirettamente la voce di chi non c’e’ piu’.

Da Mezzoeuro Aprile 2009 ]]>

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