ACCIAIERIE D’ITALIA, IL RICATTO SULLA PELLE DEGLI OPERAI

Adesso che la crisi dell’acciaio stringe, i Mittal non esitano a chiudere le aziende dell’appalto per mungere dallo stato altri soldi e tirare avanti, fin quando gli converrà
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Adesso che la crisi dell’acciaio stringe, i Mittal non esitano a chiudere le aziende dell’appalto per mungere dallo stato altri soldi e tirare avanti, fin quando gli converrà


 

Nello stabilimento siderurgico di Taranto ha dominato sempre la legge del più forte, cioè del padrone di turno. Adesso che ne è proprietaria Acciaierie d’Italia spa (il cui pacchetto azionario è per il 62% di ArcelorMittal e per il 38% dell’agenzia governativa Invitalia, partecipata al 100% dal Ministero dell’economia e delle finanze) comandano i Mittal (mentre lo stato fa da comprimario che porta soldi) e fanno essi la voce grossa.
L’acciaio perde mercato, in tutto il mondo. Mentre le materie prime energetiche, gas e petrolio, continuano a crescere, i prezzi di quelle industriali come l’acciaio e il minerale di ferro sono in caduta. Le cause sono il rallentamento della produzione industriale e la consapevolezza della recessione incombente. “Tutta l’economia globale ha sostenuto i metalli di base nella prima parte dell’anno, grazie al rimbalzo post-pandemico e alla crisi degli approvvigionamenti. Ora però, con i mercati europei e nordamericani che entrano almeno in recessioni tecniche, tali materie prime si stanno muovendo verso il basso” evidenzia Matthew Sherwood, capo analista delle materie prime presso l’Economist Intelligence Unit.
Ed ecco che Acciaierie d’Italia, per fronteggiare le perdite, batte cassa a governo e stato. E per essere persuasiva lo fa sospendendo l’attività di 145 ditte dell’appalto e di oltre 2.000 operai. Ditte le cui produzioni e i cui servizi sono importanti per Acciaierie d’Italia, ma questa va giù duro per raggiungere bene e subito lo scopo.
Quella dei Mittal è un’arroganza non nuova. Il 1° novembre 2018 l’Ilva entrò a far parte della multinazionale ArcelorMittal, diventando ArcelorMittal Italia spa. Ma appena un anno dopo, il 5 novembre 2019, ArcelorMittal comunicò l’intenzione di disdettare ogni impegno assunto, produttivo, occupazionale e ambientale e di chiudere gli impianti. Il governo Conte 2 intervenne promuovendo l’entrata di Invitalia nel capitale sociale di ArcelorMittal Italia spa e garantendo soldi per aumentare il capitale sociale. I Mittal avevano vinto. Con l’accordo firmato a dicembre 2020 lo stato italiano è entrato nel capitale con risorse straordinarie e ha assunto su di sé, oltre a una parte rilevante dei costi economici, gli oneri più delicati e complessi di tutta la vicenda, quelli ambientali e occupazionali. In pratica sulla collettività sono ricaduti pagamento della cassa integrazione e inquinamento. Invece i Mittal sono riusciti a conquistare condizioni a loro vantaggio persino migliori di quelle che avevano concesso prima il governo Gentiloni, favorendone la scalata all’Ilva, e poi il governo Conte I, con l’accordo del 6 settembre 2018, firmato anche da Cigl, Cisl, Uil e Usb, che portò all’espulsione dal ciclo produttivo di 6.000 operai, dei quali 2.600 a Taranto.
Alla faccia di coloro, fra politici e sindacalisti, che avevano spacciato questa ulteriore svendita dell’ex Ilva per opportuna nazionalizzazione, i Mittal hanno proseguito, a prezzo politico, lo sfruttamento degli impianti, hanno potuto contare in due anni su 1,1 miliardi di euro di denaro pubblico, hanno incassato la reintroduzione dello scudo penale e la rimozione di tutte le imposizioni e di tutti i procedimenti legali (cioè sequestri penali) pendenti sullo stabilimento di Taranto e un piano ambientale meno impegnativo, hanno avuto ancora di più mano libera sulla gestione della forza-lavoro operaia. Tutto in cambio della promessa della piena occupazione entro il 2025. Sciocca illusione, sbandierata da governo e sindacati, perché mai come negli ultimi due anni i Mittal hanno fatto man bassa di cassa integrazione, ordinaria, per Covid e straordinaria, con i burocrati sindacali fermi a guardare.
Adesso che la crisi del mercato dell’acciaio stringe, i Mittal non esitano a chiudere le aziende dell’appalto per mungere altri soldi e ad aumentare la cassa integrazione degli operai diretti dipendenti, come hanno già programmato, e tirare avanti. Poi, quando avranno terminato la loro speculazione e non avranno più alcun interesse in rapporto alle loro strategie globali di profitto, abbandoneranno il gruppo siderurgico a nuovi padroni, che, pubblici e/o privati, continueranno a mettere al giogo gli operai. Perché, questo è il punto, gli operai delle ditte dell’appalto e gli operai di Acciaierie d’Italia, senza mettersi finalmente insieme per difendere gli interessi comuni, rimarranno ostaggio dei ricatti e delle prevaricazioni dei padroni di turno.
L.R.


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