STELLANTIS MELFI, QUELLO CHE È VERAMENTE SCRITTO NELL’ACCORDO

Come sempre i capi sindacali spacciano per grandi risultati grandi fregature. Abbiamo letto attentamente cosa hanno sottoscritto: hanno venduto la pelle degli operai per un pugno di mosche. Gli operai gli presenteranno il conto.
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Come sempre i capi sindacali spacciano per grandi risultati grandi fregature. Abbiamo letto attentamente cosa hanno sottoscritto: hanno venduto la pelle degli operai per un pugno di mosche. Gli operai gli presenteranno il conto.


 

Due giorni dopo le assemblee tenutesi nello stabilimento Stellantis di Melfi, nel pomeriggio di venerdì, poche ore prima della chiusura della fabbrica in cassa integrazione collettiva fino al 4 luglio, i sindacati Firmatutto insieme alla Fiom, in spregio alle tante contestazioni ricevute nelle assemblee, hanno diramato un comunicato dai toni trionfanti. Parlano di aver raggiunto un accordo per Melfi che guarda al futuro e garantisce il presente. Non ci limiteremo a criticare questo comunicato, ma analizzeremo il testo dell’accordo, o meglio, degli accordi sottoscritti. Sappiamo benissimo che nei comunicati i sindacati tentano di rendere il più presentabile possibile le cose che sottoscrivono, ma poi quello che conta, almeno fino a quando l’azienda intende rispettare gli impegni assunti, è ciò che è scritto nell’accordo e nient’altro. Terremo conto però anche delle numerose dichiarazioni rilasciate dai sindacalisti dopo l’incontro nazionale con Stellantis del 15 giugno. Nella foga di dimostrare di contare qualcosa e di non essere, come li chiamano gli operai di Melfi, dei bidelli, il cui ruolo è solo quello di comunicare le decisioni aziendali, alcuni di loro si sono lasciati andare a dichiarazioni che rivelano il senso vero e la portato di ciò che nell’accordo si è preferito scrivere in forma più generica e oscura.

La prima cosa da considerare è che questa “garanzia del presente” si traduce in due testi di cui uno stabilisce il regime di cds, cioè contratti di solidarietà, ossia cassa integrazione, per un anno, dal 01/08/2021 al 31/07/2022 per tutto il personale di Melfi, tranne, ovviamente, i responsabili di “primo livello”, mentre l’altro definisce gli incentivi per il licenziamento “volontario” di 300 lavoratori, licenziamenti che dovranno avvenire entro il 31 luglio 2022. Certo se per “garanzia del presente” i sindacalisti intendono un anno di cassa integrazione a gogò e 300 licenziamenti, seppure (male) incentivati, allora dovremo davvero tremare quando gli stessi sindacalisti si sentiranno in dovere di sottoscrivere accordi che prevedono “sacrifici necessari”, che è l’altro modo loro di camuffare le totali rese alle richieste aziendali. Ma questa “garanzia del presente” diventa ancora più una nube scura, carica della tempesta che si avvicina, se si considera l’altro aspetto “positivo”, sempre secondo i sindacalisti: il “guardare al futuro” dell’accordo.
Il futuro è affidato alla produzione di 4 auto elettriche, il cui lancio è previsto, come leggiamo nell’accordo a partire dal 2024. Nella foga di esaltare quello che hanno sottoscritto, i sindacalisti invece dicono che “a partire dal 2024, a Melfisarà allocata la produzione di 4 nuovi modelli completamente elettrificati”. L’accordo, come abbiamo visto, non dice esattamente così, bensì che queste quattro nuove vetture completamente elettriche e multibrand “verranno allocate a Melfi e lanciate a partire dal 2024”. La differenza fra le due versioni è sottile, ma significativa. I sindacati danno ad intendere che a partire dal 2024 si produrranno 4 nuove, anche se ancora ignote, vetture elettriche, mentre nel testo si evince che a partire dal 2024 si inizierà la produzione e quindi il lancio di questi nuovi 4 modelli. Come avverrà, ammesso che avverrà, questo processo, non è detto, ma quel “a partire” fa capire che si tratterà di un lancio progressivo, che si prolungherà per un certo lasso di tempo, e che la cosa comporterà altri periodi di cassa. Ma torniamo alla “garanzia del presente”. Quello che i sindacalisti hanno sottoscritto “garantisce”, alla loro maniera, solo fino a luglio 2022. Fino al 2024 restano altri due anni ed è facile pensare in che modo azienda e sindacati “garantiranno” questo prossimo futuro.

L’accordo, oltre alla cassa e ai licenziamenti, prevede però altre cose certe, immediate, sempre in cambio di questi impegni futuri, che sono fissati a partire dal 2024.
La prima e la più significativa è lo smantellamento di una delle due linee e il passaggio dell’intera produzione attuale su un’unica linea “potenziata”. Per “potenziamento” qui si intende il passaggio delle parti più efficienti e flessibili sull’unica linea che resta attiva e la disinstallazione delle parti superflue.
In pratica, in agosto inizieranno a DISINSTALLARE pezzi della seconda linea, la produzione si farà su una sola linea potenziata e sarà comunque con una capacità massima di 400.000 auto anno. I firmatari hanno sottoscritto il ridimensionamento dell’apparato produttivo sapendo benissimo che spariranno dei posti di lavoro reali. Quello che hanno ottenuto in cambio è solo un piano di prospettive indefinite, i quattro modelli elettrici dal 2024, la produzione di batterie e l’accresciuto volume di produzione di presse e plastica. Solo generici impegni, smantellano una linea subito e condiscono gli operai con impegni generici, ma firmatutto e fiom sono soddisfatti.
Qui va fatta un po’ di chiarezza sul fatto che la capacità produttiva massima dello stabilimento (400.000 auto annue) resterà la stessa, perché in molti hanno equivocato. L’azienda non dice che si produrranno 400.000 auto all’anno, ma che l’impianto conserverà il limite teorico di una produzione massima di un tale volume di auto. Si tratta di un limite teorico mai effettivamente raggiunto (solo nel 2016 si produssero un numero inferiore di poche decine di migliaia, mentre in genere la produzione effettiva è stata sempre bene al di sotto). Ora, come si può leggere in qualsiasi manuale di management, esiste sempre una differenza fra il limite massimo teorico e il limite massimo realmente ottenibile da un impianto, che opera in condizioni normali e non ideali e la grandezza di tale differenza è subordinata a tante variabili soggettive che la rende piuttosto arbitraria. Quindi questo impegno formale dell’azienda è solo aria fritta, che serve solo ai sindacati per sbandierare che non si è ridimensionato lo stabilimento. Ed infatti, nel loro comunicato, essi scrivono: “Questa linea potenziata manterrà invariata la capacità produttiva massima di 400.000 vetture, così facendo si garantisce la potenzialità del sito lucano”. I furbetti scrivono “capacità produttiva massima” e non “capacità produttiva potenziale complessiva” come è invece veramente riportato nell’accordo.

La presa in giro si fa più corposa andando avanti.
Le parti, dopo aver certificato lo smantellamento di una linea, si mettono d’accordo su come gestire la fase di transizione, da qui alle agognate auto elettriche. Ripetono i tre problemi che l’azienda deve affrontare, e i sindacalisti sono pronti a fare la loro, si sentono parte integrante dell’azionariato Stellantis: riorganizzare lo stabilimento, affrontare la situazione di mercato ed infine il problema della componentistica. Sottoscrivono senza vergogna che la riduzione temporanea del fabbisogno di operai è di 3.215 unità, in parole povere padrone e sindacato stabiliscono che a Melfi per 3.215 operai non ci sarà lavoro. Sempre temporaneamente! Useranno il contratto di solidarietà che chiederanno per tutti i 7.144 in modo da poter scegliere nel mazzo a loro piacimento. Per un anno dal prossimo 1 Agosto al 31 Luglio del 2022.
Qui comincia il bello. Viene fissata una riduzione di orario di media al 45%. Non è il valore singolo che garantisce ad ogni operaio la permanenza in fabbrica, al 45% è solo la media per cui c’è chi starà sempre al lavoro, chi al 25%, chi al 65% sulla base delle necessità tecnico produttive, di mercato e professionali, in parole povere chi si arruffianerà di più al capo o al sindacalista ben voluto farà meno solidarietà, ci rimetterà meno soldi.
Ma c’è un limite stabilito per legge che le parti recepiscono senza problemi, il limite del 70%, che vuol dire semplicemente che un operaio ha diritto ad essere impiegato nella produzione per un minimo del 30%.
In poche parole gli operai vengono lasciati in balìa delle necessità aziendali, siano esse di costi, di aumento di produttività, di smantellamento di impianti e l’accordo non stabilisce nemmeno la miserabile soluzione che i ratei siano garantiti comunque. Per quanto la raccontino i sindacalisti che hanno firmato, nell’accordo non è scritto chiaramente. Infatti in esso leggiamo che la “equilibrata alternanza tra presenze e sospensioni dal lavoro” sarà applicata “compatibilmente con le esigenze aziendali e nel rispetto del principio della fungibilità dei profili professionali”, per cui lo stesso impegno a garantire la maturazione dei ratei è preso “fatte salve situazioni personali specifiche”.
Prima di passare all’altro punto “forte” di “garanzie del presente”, cioè gli incentivi all’esodo, dobbiamo toccare un altro punto della nuova organizzazione produttiva: le condizioni di lavoro che si determineranno in fabbrica col passaggio da due ad una sola linea di produzione, tenendo presente che anche la Lastratura vedrà il passaggio da tre a due linee.
E’ evidente che ammassare tanti operai su una unica linea e concentrare su di essa tante lavorazioni, creerà enormi problemi di ritmi e sicurezza del lavoro. Azienda e sindacati nell’accordo mettono subito le mani avanti: l’“organizzazione del lavoro continuerà a essere regolata secondo le disposizioni e i sistemi in essere”. Nessuno spazio di trattativa vuole essere lasciato, ad es. a questioni quali l’aumento necessario delle pause. Neanche della questione, spifferata dai sindacalisti, dell’introduzione del regime dei 20 turni (più precisamente 19,5 turni settimanali, cioè un mese a 20 turni, in cui si lavora il sabato, la domenica mattina e la domenica pomeriggio, con riposi a scorrimento, e un mese a 19 turni, in cui si lavora il sabato e la domenica mattina, sempre con riposi a scorrimento) non c’è traccia nell’accordo, essendo demandata la decisione alle necessità rilevate dall’azienda.

Passiamo alla questione licenziamenti.
Con meno postazioni di lavoro ci sarà di conseguenza la necessità di smaltire il numero di operai in sovrappiù ed allora oltre a stare a casa in solidarietà bisognerà mandare in pensione gli operai stanchi e consumati da anni di linea, con i soldi risparmiati con gli ammortizzatori sociali si pagheranno gli incentivi mentre altri si faranno diventare operai girovaghi da uno stabilimento all’altro. La presa in giro è chiara quando nell’accordo leggiamo “IL DESCRITTO PROCESSO NON COMPORTERÀ ALCUN ESUBERO STRUTTURALE”. Che è solo una foglia di fico, non licenzieremo nessuno ma saranno loro stessi a licenziarsi.
Anche qui vanno fatte ulteriori considerazioni. Sempre subito dopo il 15 giugno, alcuni sindacalisti hanno spifferato che gli esuberi calcolati saranno 700, di cui, leggiamo dall’accordo, 300 saranno licenziamenti incentivati, mentre gli altri 400 saranno i “prestiti” ad altri stabilimenti. Attualmente ci risulta che circa 300 operai sono già in questa condizione. Si tratterà di “invogliarne” altri 100, sempre ammesso che davvero, seppur pressati, siano 300 gli operai che accetteranno di licenziarsi, visto che l’incentivo previsto è davvero miserabile. Una copertura, inclusa la NASPI, del 90% per i primi due anni e, poi, a NASPI esaurita, per i restanti due anni, una copertura di solo il 60% per il primo anno e del 40% del secondo. In pratica, chi accetterà di licenziarsi, dovrà mettere in conto di fare la fame per almeno due anni. La stessa questione dei contributi previdenziali volontari è dubbia. L’azienda si impegna a versarli, ma in base al reddito effettivo (60% e poi 40%) o a quello che l’operaio avrebbe preso se fosse ancora in forze nello stabilimento? Non c’è traccia di un accordo preventivo con l’INPS di questo tipo e sono queste cose che determineranno fortemente lo stesso assegno pensionistico. Anche la questione che si sia o meno in diritto di accedere alla pensione nell’arco dei 2 o 4 anni previsti è tutta lasciata sulle spalle del singolo lavoratore, che rischia così di trovarsi senza reddito anche per un semplice errore dell’Inps.
Per chi si licenzierà senza poter accedere nei 4 anni alla pensione, il contributo è di 55.000 € lordi (pari all’incirca a due anni di reddito), che aumenteranno a 75.000 € se ci si licenzierà entro il 31 ottobre 2021. Davvero molto poco per chi, in prospettiva, dovrebbe cercarsi un lavoro da un’altra parte, cosa non facile in Basilicata.

In conclusione, questi signori hanno sottoscritto un accordo che dà inizio allo smantellamento dello stabilimento e consegna gli operai nelle mani dell’azienda che potrà farne quello che vuole ed alle condizioni che vuole.
Se l’accordo valesse solo per i delegati e i funzionari sindacali sarebbero fatti loro, il problema è che chi dovrà subirne tutte le ricadute sono gli operai e in questo accordo si dà mano libera al padrone sulla loro pelle. Avevano giurato di difendere il lavoro, si accordano per smantellare i posti di lavoro, di gente del genere non ci si può fidare per nessuna ragione. Ma gli unici che possono fermarli sono gli operai stessi. L’accordo è per tutti i firmatari un buon accordo, tanto a casa con metà salario e a scoppiare sulle linee ci saranno gli operai e solo loro.
A. V.

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