SOVRAPPRODUZIONE DI ACCIAIO. TAGLIARE PER GUADAGNARE

Riducono la produzione per sostenere i prezzi. Sostenere i prezzi vuol dire continuare a fare i profitti eccezionali del 2018. I licenziamenti e gli operai in miseria non sono affar loro.
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Riducono la produzione per sostenere i prezzi. Sostenere i prezzi vuol dire continuare a fare i profitti eccezionali del 2018. I licenziamenti e gli operai in miseria non sono affar loro.

Nel 2018 in tutte le acciaierie del mondo gli operai che vi lavorano hanno prodotto 1.808 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, ma l’utilizzo “apparente” di acciaio, ovvero i prodotti finiti in acciaio, è stato nello stesso anno di 1.712 milioni di tonnellate. E’ in questo scarto di circa 100 milioni di tonnellate di acciaio prodotte in più ogni anno che già si intuisce quale malattia colpisce i padroni dell’acciaio nel mondo. La chiamano “sovracapacità” produttiva, per evitare la definizione di Karl Marx, più precisa, di “sovrapproduzione”, piuttosto imbarazzante per i borghesi.
Se uno pensa che 100 milioni di tonnellate di acciaio possano essere un male sopportabile e fisiologico del settore, si consideri che è di più dell’intera produzione degli Stati Uniti (86,6 milioni t), e circa quella di Germania, Italia, Francia, Spagna e Regno Unito, messi assieme (103,9 milioni t). Ma non solo, per portare ad esempio proprio ArcelorMittal, coinvolta nella vicenda ex-Ilva di Taranto e primo produttore al mondo di acciaio, si scopre che nel 2018 ha prodotto 96,42 milioni di tonnellate ma avrebbe la capacità capacità produttiva di circa 118 milioni di tonnellate, il che significa che ArcelorMittal già nel 2018 ha limitato la sua produzione all’80%, nel tentativo di stare dietro al mercato capitalistico e contenere la sua sovrapproduzione che altrimenti sarebbe stata ancora più pesante. Si può star certi che almeno la stessa percentuale di utilizzo degli impianti la si possa applicare a tutti gli altri produttori e questo ci dà un’idea della gravità del fenomeno.
Ma il 2018 è un anno eccezionale per i profitti delle acciaierie, la svolta avviene forse nell’ultimo trimestre. Infatti, è la primavera scorsa che i padroni dell’acciaio cominciano probabilmente a capire, ordinativi e “trimestrali” sulle scrivanie, che l’uscita dalla crisi sono fantasie da lasciare a sindacalisti di professione e ai politici a fini elettorali. «Negli ultimi mesi – denunciava ad aprile Eurofer, la federacciai europea– c’è stato un improvviso e netto peggioramento delle prospettive per l’industria europea dell’acciaio», che ora si trova ad affrontare una «crisi acuta», con gravi impatti sull’occupazione: i posti di lavoro «a rischio immediato» sono già oltre 10mila, che salgono ad almeno 100mila contando l’indotto.
Se stiamo sempre come esempio su Arcelor, così riportava il Sole 24 ore del 6 maggio: «ArcelorMittal annuncia un taglio alla produzione siderurgica in Europa di 3 milioni di tonnellate. Ma i piani sull’Italia non dovrebbero cambiare, salvo il fatto che non ci sarà il previsto aumento di produzione. L’output negli stabilimenti siderurgici di Cracovia (Polonia) sarà sospesa, mentre quella nelle Asturie (Spagna) sarà ridotta». Ma siccome – si diceva – la decisione non riguardava Taranto, meglio così.
Eppure la tempesta si stava avvicinando ancora e a fine maggio i toni già cambiavano. «Tutti i principali produttori europei sono in crisi. Nelle ultime trimestrali i gruppi quotati hanno segnalato perdite o profitti in calo e i titoli delle società da inizio anno perdono dal 10 al 20 per cento».E così ritroviamo ancora Arcelor che annuncia nuovi tagli di produzione. Sempre dal Sole 24 ore, 29 maggio: «Ancora tagli alla produzione di acciaio in Europa. Ad annunciarli, per la seconda volta in meno di un mese, è ArcelorMittal ….I tagli veri e propri, che nell’annuncio di ieri non sono stati quantificati, riguarderanno invece le acciaierie di Dunkirk in Francia e di Eisenhuttenstadt in Germania. Sempre in Germania verrà inoltre estesa una fermata per manutenzione dell’impianto di Brema, prevista per il quarto trimestre».
Forse ci voleva poco a capire dove sarebbe stato l’ulteriore taglio della produzione di ArcelorMittal dopo i tagli nel resto d’Europa di 3 milioni di tonnellate a inizio anno, e gli altri 4,5 milioni a fine maggio. Ma allora invece di denunciare che ancora una volta un grande padrone non si faceva scrupolo di gettare in miseria migliaia di operai nel resto dell’Europa per garantirsi i propri profitti, ci si felicitava che la ex-Ilva di Taranto non venisse toccata. Invece ora tocca proprio alla ex Ilva. Il problema è evidente, la produzione di acciaio è stata tagliata non perchè la domanda di acciaio a livello mondiale è diminuita ma perchè il mercato non è in grado di assorbire l’acciaio ai prezzi che garantiscano un adeguato utile ai suoi produttori. Sono i saggi di profitto che la ArcelorMittal deve realizzare sulla produzione dell’acciaio che ne limitano la produzione, non la caduta assoluta della domanda mondiale. Ma se questo è vero occorre che gli operai affermino una loro autonomia, contro tutte le chiacchiere di politici e sindacalisti, che li vogliono legati mani e piedi alla produzione di acciaio. Se all’ex Ilva bisogna ancora lavorare o si fa in condizioni ambientali sopportabili e il padrone impieghi i suoi profitti per il risanamento, senza scudo penale, o è meglio che chiuda. Se il padrone per il suo mercato ha bisogno di tenerci inattivi dopo averci sfruttato ed avvelenati ci paghi l’inattività. Ma non con la miserabile cassa integrazione da 900 euro al mese, ma con un’integrazione che raggiunga quasi un salario pieno. Se poi tutti gli operai siderurgici, unendo le loro forze, cominciassero a mettere in discussione le cause vere della sovrapproduzione, che si trovano nella corsa all’arricchimento dei padroni dell’acciaio, sarebbe ancora meglio, si potrebbe intravedere una gestione delle forze produttive liberate dalle catene del profitto ad ogni costo.
R.P.

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