CAPODANNO ALLA WHIRLPOOL DESERTA

Nella sala delle assemblee un drappello di una decina di operai si ritrova per augurarsi che il 2022 porti qualche soluzione alla loro vertenza, è il momento di chiedersi come è veramente andata.
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Nella sala delle assemblee un drappello di una decina di operai si ritrova per augurarsi che il 2022 porti qualche soluzione alla loro vertenza, è il momento di chiedersi come è veramente andata.


 

La sala è quella dove per oltre due anni si sono svolte le loro assemblee, ma questa volta è diverso. É il giorno di Capodanno, la sala è deserta, pure il parcheggio antistante lo è. I cori “Napoli non molla”, i capannelli di operai che fumano nervosamente in attesa che arrivino notizie dai sindacalisti, la confusione e gli strepiti che accompagnano le assemblee dove si esce con un’incertezza più grande di quella con cui si era entrati, sembrano già appartenere ad un passato remoto. È Capodanno, un drappello di dieci operai si ritrova in quella sala per augurarsi che il 2022 porti qualche soluzione alla loro vertenza. Di fronte c’è l’ormai ex capannone Whirlpool in cui da qualche giorno l’azienda ha cominciato a prelevare merce e macchinari. Il capannone doveva essere presidiato fino al raggiungimento di un accordo che avrebbe definito tempi e soluzioni certe per gli operai in previsione di una ripresa produttiva. E invece cosa c’è? Nulla. Da quel capannone sta uscendo il valore prodotto dagli operai che dopo anni di sfruttamento sono stati scaricati perché al padrone conviene spostare la produzione, e non si sa cosa ci entrerà e quando. L’unica certezza per gli operai è un assegno Naspi che certifica la loro condizione di disoccupati. Fila tutto liscio per i sindacati che fin dall’inizio della vertenza sono stati promotori di iniziative dalla grande eco mediatica: gli operai sono stati ovunque, dai palazzi della prefettura, alle sedi ministeriali, dagli studi televisivi, agli uffici dei cardinali. Ovunque, ma non dentro la loro fabbrica. All’esterno c’era il presidio sì, ma c’erano anche gli ingressi dei reparti, il cuore produttivo dell’azienda, sbarrati con i catenacci. Nessuno degli operai ha mai avuto accesso all’interno della fabbrica, nessuno di loro ha neanche mai pensato di andarselo a conquistare. Così è stato facile far credere che l’occupazione del sito era immotivata, perché all’interno non vi era nulla che potesse interessare ancora all’azienda. I sindacati adottavano la retorica della compensazione tra benefici e svantaggi, facendo risultare questi immancabilmente più elevati. Era un’iniziativa “smisurata”, oltre che “illegale”. Di occupare la fabbrica non se ne doveva proprio parlare.
Oggi l’azienda sta andando tranquillamente a recuperare ciò che secondo i sindacati ad essa non doveva più interessare, cioè soldi, valore, investimenti, plusvalore prodotto dalla coercizione del lavoro operaio, merce e macchinari. E può recuperarli con la garanzia che niente potrà intralciarla. Il suo scudo sta proprio nella fumosità con cui governo, sindacati e azienda stanno procedendo: se non si libera il capannone come si può procedere alla sua bonifica e riconversione? L’ultima pistola ben puntata sulla testa degli operai. Un padrone deve andar via per vedere un altro arrivare. Peccato che nessuno dei soggetti coinvolti nelle estenuanti trattative al Mise sul futuro dello stabilimento abbia indicato ancora chi e quando dovrà arrivare, a meno che non si voglia ritenere che il proprio posto di lavoro sia al sicuro leggendo quello che i giornali pubblicano di tanto in tanto sul toto-acquirenti, ieri un consorzio di 59 aziende, oggi 24 e domani chissà.
Gli operai sarebbero potuti riemergere dalla marginalità in cui sono finiti con la più antica ed elementare presunzione nel corso di una trattativa “prima vedere cammello e poi…”. E poi vi facciamo sgombrare lo stabilimento. Prima la certezza sul nostro futuro, prima la definizione precisa di un progetto, prima la costituzione della nuova società, prima le nuove assunzioni e poi quello che vi serve. Se gli operai non maturano che questi sono passaggi ineludibili nella permanenza di una guerra con la loro controparte e i suoi rappresentanti politici, non avvertiranno la necessità e l’urgenza di compiere determinate azioni. E allora si attende che dal governo arrivino risposte, si inseguono sindacalisti farfalloni e complici, si cerca la buona parola del prete, il minuto televisivo per gentile concessione, la sfilata dei politici che accorrono in solidarietà per la propria visibilità politica ed elettorale, tutti momenti e situazioni che non li aiutano a mettere a fuoco i passaggi necessari che come classe hanno bisogno di fare in una guerra che, volenti o nolenti, esiste ed esiste per spremerli come serbatoi di ricchezza generata dal loro pluslavoro per poi liquidarli come qualsiasi altra merce e affamarli.
Da alcuni trapela una placida soddisfazione per aver messo almeno le mani su un assegno di 95.000 euro (lordi), somma che viene loro riconosciuta dall’azienda in cambio di un ‘tombale’, la rinuncia a qualsiasi iniziativa legale presente e futura per rivendicare diritti contrattuali e salariali ritenuti lesi a seguito del licenziamento. In ciò risiede la ragione principale per cui sembra che i sindacati non abbiano concluso il solito accordo a perdere per gli operai, malgrado che la vertenza sia finita con il licenziamento, una promessa di continuità nel lavoro di produzione di lavatrici sbandierata ai quattro venti per trentuno mesi e finita nel vuoto, la chiusura e lo smantellamento di uno stabilimento senza che per il momento ci sia un’alternativa concreta. Forse è finita bene proprio per i sindacati che, dalle conciliazioni che gli operai hanno accettato (licenziamento e assegno a fronte del tombale), tutti tranne 4 che hanno scelto il trasferimento in un altro stabilimento italiano di Whirlpool, hanno potuto rimpinguare le loro casse ricevendo una somma per ogni conciliazione firmata, quantificabile in percentuale sulla somma che spetta agli operai. Da queste vertenze, che non si sa dove possano cominciare ma si sa bene come finiscono, il cui copione fallimentare dovrebbe ormai essere noto alla gran parte degli operai in Italia,i sindacati se ne escono con la faccia pulita e le tasche piene, mentre gli operai mandati allo sbando ci perdono lavoro e soldi. Prima o poi gli operai dovranno pur porre la questione, tanto per cominciare, che questi soldi, riconosciuti al soggetto garante di un accordo di conciliazione stragiudiziale, ovvero i sindacati, vadano a loro, per una cassa di resistenza e di solidarietà, e non più nelle tasche di chi aveva il compito di evitare i licenziamenti e non di finire a mangiarci sopra. Ma questa è la legalità che tanto piace ai sindacati, questi sono i passaggi che propagandano tra gli operai come successi.
Il nuovo anno è iniziato, gli operai si augurano che porti buone notizie. Le uniche che si hanno al momento è che una cordata di capitani di ventura possa – possa – rilevare lo stabilimento, ma l’accordo con Whirlpool e il governo non c’è ancora. Tra questi capitani di ventura vi è chi sostiene un polo della mobilità sostenibile. Fatto sta che gli operai rischiano di finire spacchettati e con un’inquadratura contrattuale e salariale tutt’altro che migliorativa, venendo di fatto assunti con contratti ex-novo Jobs Act. Ci sarà poi posto per tutti nel nuovo ipotetico sito di Napoli? Le prime indiscrezioni parlano di un assorbimento parziale di manodopera, per gli esuberi sarebbe previsto un trasferimento in altri siti entro un certo chilometraggio. Ma perfino questi elementi da considerare certamente come una sconfitta per gli operai ex Whirlpool rientrano nel novero delle più rosee aspettative. Ad oggi, con una fabbrica chiusa, a giudicare dalla storia delle riconversioni produttive degli ultimi anni, pur con l’intervento di capitali pubblici, non è affatto improbabile che si finisca ad attendere anni nel baratro della disoccupazione e della cassa integrazione finché c’è, o dentro l’involucro di società costituite sulla carta ma senza produzione. Di attesa in attesa si finisce di male in peggio ….
A. B.

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