INDIA, UNA PROTESTA PASSATA SOTTO SILENZIO

250 milioni fra contadini poveri e braccianti ed operai danno vita ad un’azione di protesta fra le più grandi della storia recente, ma la disinformazione la ignora senza ritegno.
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250 milioni fra contadini poveri e braccianti ed operai danno vita ad un’azione di protesta fra le più grandi della storia recente, ma la disinformazione la ignora senza ritegno.


Un contributo di Pietro Demarco alla Redazione di Operai Contro per il dibattito

PREMESSA
La maggior parte delle persone è convinta che siamo nell’epoca dell’informazione globale e si conosce quello che avviene in ogni parte del mondo. Niente di più sbagliato, chi controlla l’informazione globale di massa filtra le notizie che devono giungere al popolo e alla gente comune per “formare” l’opinione pubblica. Ciò avviene in tutti gli ambiti, vedi la disinformazione sui vaccini, ma è soprattutto sulle proteste che si raggiunge il culmine della non informazione. Si dà conto solo delle manifestazioni innocue filo capitalistiche e che non mettono in discussione il sistema di produzione fondato sul profitto generato dal lavoro salariato e al massimo si protesta per un cambio di regime di facciata. Quando, invece, è una parte del popolo a protestare contro qualcosa che peggiora le proprie condizioni di vita, tutto viene oscurato e insabbiato, soprattutto se si mette in discussione un sistema produttivo funzionale al profitto. Si pensi, per esempio, a tutte le manifestazioni avvenute in Cile e in America Latina durate mesi ma che non hanno trovato spazio nell’informazione di massa. Quello che è avvenuto in India, però, ha superato ogni limite: la più grande protesta di massa della storia recente, che ha coinvolto al suo culmine 250 milioni di persone, è stata del tutto dimenticata e insabbiata, forse c’è stato solo qualche accenno in qualche notiziario ma niente di più. Se poi a protestare sono principalmente i contadini poveri e braccianti allora interessano ancora meno, sono l’ultima anello del sistema.

I MOTIVI DELLA PROTESTA
Quali sono i motivi della protesta dei contadini poveri e dei braccianti indiani? Ebbene sono tre leggi emanate in piena pandemia atte a liberalizzare il mercato dei prodotti agricoli. Per capire le ragioni di proteste così radicate nel territorio, bisogna considerare la particolarità dell’India: la maggior parte del territorio indiano è collocato a sud delle catene dell’Himalaya, e il grande sistema fluviale indiano ha creato una immensa pianura fertilissima. Una pianura che ha sempre fatto gola alle multinazionali alimentari che hanno cercato di “modernizzare” l’agricoltura indiana attraverso la cosiddetta “rivoluzione verde”: pesticidi a profusione, sementi selezionate e monocolture, in pratica assoggettamento alla Monsanto e altre multinazionali del settore. Questa agricoltura però, ha devastato il fragile equilibrio ecologico delle pianure indiane e in India si sono verificati, e si verificano, il più alto numero di suicidi di contadini rovinati dai debiti per acquistare concimi e pesticidi e sementi. Da qualche tempo, però, con l’aiuto di organizzazioni ambientaliste i contadini stanno tentando una gestione della produzione agricola autonoma, senza ricorrere alle materie prime fornite dalle multinazionali cercando così di risollevare le loro sorti. Questo è stato possibile per la presenza in India del sistema dei prezzi amministrati, svicolati dal libero mercato, sistema che viene da lontano e che servì al governo per garantire ai contadini poveri un minimo di reddito ed evitare vere e proprie rivolte. Ora è la stessa borghesia indiana in combutta con le multinazionali del sistema alimentare a voler demolire il sistema: vivere del proprio lavoro sul proprio pezzo di terra non è accettato, di fatto, dal capitale. La piccolissima proprietà diventa un ostacolo alla gestione capitalistica dell’agricoltura su vasta scala e va rimossa. Quella che viene definita riconversione ecologica di parte dell’agricoltura indiana è vista come fumo negli occhi dalle multinazionali, molti contadini dimostrano che è possibile ottenere un reddito anche più elevato senza il bisogno di comprare pesticidi e sementi, per questo i fautori dei movimenti ecologisti sono stati, spesso, minacciati di morte, come Vandara Shiva, nota attivista indiana, la principale sostenitrice della riconversione ecologica dell’agricoltura indiana.

L’ANOMALIA INDIANA
Allora qual è la posta in gioco in India? Difficile pensare che sia solo una questione di regolamentazione del mercato agricolo, sotto sotto c’è dell’altro, soprattutto fanno gola quelle immense distese di terra fertile non utilizzate nel circuito della produzione dei mangimi e delle altre colture intensive. Per fare questo, però, è necessario eliminare l’anomalia indiana: in un paese cosiddetto moderno non è ammissibile che il 55% della popolazione viva ancora di agricoltura e l’85% possieda meno di 5 ettari di terreno e viva del proprio lavoro, grazie anche alla politica dei prezzi amministrati dove, per legge, viene fissato un prezzo minimo pagato dallo stato per lo stoccaggio delle derrate alimentari. Ed è questo che si vuole eliminare con la scusa della liberalizzazione. In realtà le multinazionali del cibo vogliono accaparrarsi le terre indiane: in questo modo si ottengono due piccioni con una fava: con la “modernizzazione” dell’agricoltura si libererebbe un immenso serbatoio di manodopera a basso costo da destinare all’industria manifatturiera indiana. In effetti il premier Modi, sostenitore del neo liberismo indiano, non nasconde l’ambizione di far acquisire al Paese il ruolo di nuova fabbrica mondiale, grazie alla ampia possibilità di manodopera a basso prezzo da offrire. La sequenza degli eventi programmata è chiara: si liberalizzano i prezzi agricoli, si mettono in crisi le aziende marginali, le terre vengono acquistate dai latifondisti e dal ciclo della produzione dei mangimi, si libera forza lavoro da trasformare nei nuovi schiavi moderni. Una sequenza di eventi già ampiamente sperimentata in molte aree del terzo mondo, dall’Africa all’America latina.

IL MOVIMENTO DI PROTESTA
Andiamo al nocciolo della questione, le proteste in India. Sono iniziate in forma locale, nei distretti agricoli più importanti, poi, a macchia d’olio, si sono diffuse su tutto il territorio indiano, coinvolgendo tutte le classi proletarie. Le manifestazioni sono iniziate a fine agosto e sono continuate ininterrottamente in un crescendo di partecipazione e intensità di azioni, sino a raggiungere il culmine il 23 gennaio con uno sciopero generale che ha coinvolto 250 milioni di lavoratori, forse lo sciopero generale più ampio e coinvolgente della storia moderna, notizie ghiotte se ci fosse realmente un giornalismo realmente libero. A causa del movimento di protesta il governo Modi è stato costretto a congelare le leggi per 18 mesi, ma i manifestanti sono disposti a mobilitarsi per anni se le leggi non verranno ritirate. L’aspetto interessante è l’appoggio del movimento operaio indiano, con partecipazione attiva agli scioperi, blocchi stradali e ferroviari. Non è un movimento solo di contadini poveri ma coinvolge anche i braccianti, pagati a 3 euro al giorno, i senza terra, tutta gente disperata non disposta a finire in un baratro dopo una misera esistenza. Non un movimento interclassista ma di classe, i latifondisti agrari e classi borghesi non sono coinvolte nel movimento, anzi lo osteggiano.

LA CENSURA E L’OSCURAMENTO INFORMATIVO.
Il governo Modi non è stato con le mani in mano ma ha reagito duramente alle manifestazioni e blocchi che durano ormai da mesi: arresti a raffica di tutti i leader del movimento e organizzatori politici e sindacali (si tratta di migliaia di arresti), ci sono stati scontri con la polizia con 140 morti, ma anche blocco dei social di tutti gli attivisti. Di tutto questo non c’è traccia negli organi informativi di massa, solo andando a spulciare nel web si trovano notizie in merito. Questo deve far riflettere, quando le cose avvengono in paesi “amici” della borghesia tutto viene oscurato, non è vero che siamo nell’era della libera informazione, forse in tempi passati le informazioni circolavano di più.
È da condividere la rivolta indiana? Certamente sì, innanzitutto perché resiste alla rovina dei contadini poveri da parte del grande capitale e soprattutto perché mette all’ordine del giorno il fatto che lo sviluppo dell’agricoltura non deve passare necessariamente dall’espropriazione violenta della terra ai contadini poveri, dalla produzione alimentare avvelenata dalla fame di profitto, che sarebbe possibile uno sviluppo agricolo in funzione dei bisogni sociali, ma qui si tratterebbe di instaurare nuovi rapporti di produzione e di scambio, nuove classi al potere. Un movimento di milioni di uomini spinto alla lotta radicale è una culla perché certe idee possano maturare. Certo oggi ci si mobilita a milioni e solo forse per garantirsi una misera esistenza, ma se i contadini poveri dell’India perdono è una sconfitta del proletariato internazionale.
PIETRO DEMARCO

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