ASSOLUZIONE! LA MORTE OPERAIA RIDOTTA A “DISGRAZIA”

È quanto certificano le motivazioni per l’assoluzione del padrone nel cui tendone morì ad Andria, nel 2015, la bracciante Paola Clemente. E’ questa giustizia? Si, è la giustizia a misura dei padroni.
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È quanto certificano le motivazioni per l’assoluzione del padrone nel cui tendone morì ad Andria, nel 2015, la bracciante Paola Clemente. E’ questa giustizia? Si, è la giustizia a misura dei padroni.

L’operaio, se, mentre lavora, si fa male, se anche muore, è colpa sua. In fabbrica, sul cantiere o nei campi, se si ferisce o perde la vita, è stato in qualche modo disattento, si è trovato per suo errore nel posto sbagliato, ha eseguito in maniera imperfetta qualche operazione, ha calcolato male, non ha capito il funzionamento di un attrezzo o di una macchina o non l’ha fatto/a funzionare nella maniera adeguata, si è comportato in modo scorretto, superficiale, si è confuso, si è sentito male, era già ammalato… Tutte le volte che a un operaio capita un incidente, ne procuri esso l’infortunio o la morte, emerge, in primo luogo nei resoconti giornalistici, un malore, un errore o una distrazione come causa, probabile o sbandierata come certa, della “disgrazia”. Insomma, in qualche modo, per caso o per sua incuria, il “disgraziato” di turno se l’è andata a cercare. È la motivazione che il giornalista pacioso trova più facile e comoda, persino ovvia, da ammannire a chi lo legge o ascolta. È, non a caso, la stessa motivazione che ogni volta viene fornita dal padrone della fabbrica, del cantiere o del campo e/o dai suoi sottoposti, scaricandosi della pur minima responsabilità e rilanciando la “colpa” sul “poveraccio” incorso nella “disgrazia” particolare (che a volte viene addirittura licenziato, come è accaduto a un operaio nello stabilimento siderurgico di Acciaierie d’Italia di Taranto, perché il suo infortunio ha causato il blocco della produzione!). Addurre puntualmente tale motivazione è agevole perché essa trova piena giustificazione nelle sentenze fasulle dei giudici eventualmente chiamati a individuare le cause della “disgrazia”, coerenti nel discolpare il padrone e nell’incolpare, di fatto, il malcapitato operaio.
Benché la pressione dei padroni sugli operai per ottenere il massimo rendimento a poco costo, senza alcuna cura del livello imposto di pericolosità, sia la causa, modulata in tanti modi diversi, della strage silenziosa che si consuma sulla pelle operaia, la ragione economica “imprenditoriale” che ha costretto gli operai a lavorare in condizioni di mancanza reale di sicurezza scompare nelle motivazioni delle sentenze dei giudici o viene annacquata fino a farle assumere un ruolo irrilevante.
Sono rare le volte in cui emerge in maniera innegabile la responsabilità dolosa del padrone o di qualche suo braccio destro, come nel caso di Luana D’Orazio, la giovane operaia stritolata in una fabbrica tessile di Oste di Montemurlo (Po) da un orditoio manomesso nella parte meccanica per farlo lavorare in automatico alla massima velocità senza saracinesca di protezione. Ma anche in questi casi non esiste alcuna certezza di pena seria e da scontare realmente per gli autori della manomissione di macchinari o, comunque, per i responsabili del mancato rispetto delle norme di qualsiasi necessaria forma di sicurezza. I giudici, assolvendo/prosciogliendo quasi sempre padroni e/o sottoposti da accuse simili, assolvono/adempiono al ruolo istituzionale/sociale che la società capitalistica chiede loro, cioè il mantenimento e la riproduzione continua di un meccanismo produttivo in cui il singolo operaio è un elemento marginale e la sua salute e la sua vita sono nelle mani di un padrone, piccolo o grande che sia, al quale preme solo che, nel conto economico aziendale, i profitti superino le perdite.
Esempio lampante è la vicenda di Paola Clemente, bracciante di 49 anni di San Giorgio Jonico (Ta), che morì il 13 luglio 2015 in un tendone di uva da tavola ad Andria, dove era addetta all’acinellatura, attraverso la mediazione di un’agenzia interinale, per un salario di appena 27 euro per oltre sei ore di dura fatica (e 14 ore fra andata, lavoro e ritorno a casa). Lo scorso aprile, dopo quasi otto anni, il giudice Sara Pedone del Tribunale di Trani ha assolto il proprietario del tendone, Luigi Terrone, che era stato accusato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro e per il quale la Procura aveva chiesto quattro anni di reclusione, “perché il fatto non sussiste”. Le motivazioni della sentenza chiariscono meglio il significato dell’assoluzione.
Il magistrato sostiene che è “indubbio” che l’imputato non ha adempiuto agli obblighi verso i braccianti, ma è “altrettanto vero” che “non si vede come siffatte procedure avrebbero potuto influenzare il decorso degli eventi che hanno poi portato alla morte di Paola Clemente”. Esclude ogni responsabilità di Terrone spiegando che la patologia cardiaca di cui la bracciante soffriva, emersa nel corso del dibattimento processuale, non era tale da far dichiarare la sua inidoneità al lavoro nei campi. Aggiunge che “la mancata valutazione del rischio, cui la stessa era sottoposta, non ha rappresentato la causa dell’evento, ma mera concausa”. Prosegue evidenziando che la mancanza sul posto di lavoro di un medico e soprattutto di personale addestrato per le operazioni di primo soccorso ha certamente portato a “una grave sottovalutazione dell’evento”, che ha generato “un ritardo nell’attivazione del primo soccorso, rivelatosi poi fatale”, ma alla donna sono comunque state praticate misure di primo soccorso, “seppur non da lavoratori a ciò espressamente deputati”, che non sono state sufficienti. Continua scrivendo che le condizioni della donna si erano già manifestate nella loro criticità nei giorni precedenti, senza che nessuno, neppure i medici che l’hanno visitata, si fosse accorto dei sintomi che poi l’hanno uccisa. E infine: “Non può del resto sottacersi che, anche le difficoltà dell’ambulanza del 118 (giunta sul posto dopo 26 minuti) di raggiungere il luogo dove la Clemente si trovava non sarebbero state scongiurate neppure dalla presenza di personale di primo soccorso”.
In sostanza, per il giudice di Trani, anche in presenza di informazione, formazione e misure di protezione ai braccianti, Paola Clemente sarebbe comunque morta! Morta perché soffriva di una patologia cardiaca che, però, non era tale da far dichiarare la sua inidoneità al lavoro nei campi. Ma, se la patologia le permetteva di lavorare, perché sarebbe comunque dovuta morire? È difficile far quadrare il cerchio quando ci si arrampica sugli specchi della legittimazione a tutti i costi, malgrado le evidenti mancanze, degli interessi padronali. Un giudice che valuta in maniera asettica vicende umane legate al lavoro sfruttato non tiene conto del bisogno economico che costringe una donna di 49 anni, che già non sta bene in salute, a uscire di casa alle due di una calda notte di piena estate, salire alle tre su un pullman e compiere quasi 200 km per iniziare a lavorare alle cinque e mezza in un tendone, non considera che questa donna si è già sentita male in pullman e ha chiesto di essere portata in ospedale, ma l’autista-caporale ha proseguito perché deve consegnare i braccianti al tendone di Andria all’ora concordata! Se considerasse tutto questo dovrebbe mettere sotto accusa e condannare l’intero sistema che spinge una donna, moglie e madre, a compiere enormi sacrifici per sopravvivere con un salario di appena 27 euro al giorno e, con esso, il proprietario del tendone, l’agenzia interinale e il caporale. Invece condanna l’operaia morta per essere ammalata e assolve il padrone, il quale, in una recente intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno, ha avuto la faccia tosta, nel gioco delle parti borghesi, di lavarsi le mani della vicenda sostenendo che “non sono mai stato datore di lavoro della signora Clemente in quanto, in occasione dell’attività di acinellatura del luglio 2015, mi sono rivolto a un’agenzia interinale per il reclutamento del personale”.
Parafrasando Bertold Brecht, che in “L’opera da tre soldi” scriveva: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”, alla fine l’operaio, l’ultimo della fila, ha sempre e solo torto. E l’operaio morto ha ancora più torto perché non può replicare e spiegare le ragioni vere della sua morte. Non può dire che nel meccanismo produttivo capitalistico anche la sua vita è stata solo una variabile dipendente dal conto dei profitti e delle perdite del padrone, la sua sicurezza un elemento marginale, la sua morte una “disgrazia” di cui egli stesso, dalla giustizia borghese, viene tacciato responsabile. È quanto direbbe la bracciante Paola Clemente se leggesse le motivazioni per l’assoluzione del padrone nel cui tendone morì ad Andria nel 2015.
L.R.

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