LA RABBIA DEGLI AGRICOLTORI ROVINATI HA MESSO IN MOTO I TRATTORI

Gli agricoltori poveri, estromessi dal mercato capitalistico, si uniscono e scendono in strada perché sono arrivati con l’acqua alla gola e non hanno più nulla da perdere.
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Gli agricoltori poveri, estromessi dal mercato capitalistico, si uniscono e scendono in strada perché sono arrivati con l’acqua alla gola e non hanno più nulla da perdere.

I trattori in rivolta. Chi li guida? Gli agricoltori perdenti, quelli che nel mercato capitalistico hanno perso la partita della competizione. Sono trattori costosi, decine di migliaia di euro. Per acquistarli, illusi che li avrebbero aiutati a diventare più competitivi e visibili sul mercato, si sono indebitati. Ma adesso li utilizzano per rendersi visibili in altro modo. La novità c’è. Gli agricoltori raramente escono dal perimetro della propria azienda. Appartengono a una classe di soggetti economici fortemente individualisti. È la loro condizione sociale, per essi la propria terra è tutto. Se adesso gli agricoltori perdenti si uniscono e scendono insieme in strada, in lotta, è perché sono arrivati con l’acqua alla gola e non hanno più nulla da perdere.

LA MICCIA DELLA RIVOLTA DEI TRATTORI
Chi sono precisamente questi agricoltori perdenti? Non certamente tutti i soggetti che operano nell’agricoltura, i quali si differenziano per forza economica e per possibilità di affrontare la crisi, ma è la grande maggioranza, quelli più poveri, che forma la massa del movimento. In Italia, secondo i dati del 7° Censimento generale dell’agricoltura (con riferimento all’annata agraria 2019-2020), esistono oltre 1.133.000 aziende agricole (comprese quelle zootecniche). Di queste più di 100.000, in genere di grosse dimensioni (50 e più ettari) e/o ad alta concentrazione di capitali, vengono condotte esclusivamente con operai salariati; circa 200.000, di medie dimensioni (10-50 ettari), sono a conduzione diretta del coltivatore con manodopera familiare prevalente o con manodopera extrafamiliare prevalente; più di 800.000, di piccole (sotto i 5 ettari) o piccolo-medie dimensioni (5-10 ettari) e con bassa disponibilità di capitali, sono a conduzione diretta del coltivatore con l’ausilio esclusivamente di manodopera familiare. Anche negli altri paesi europei dove i trattori sono scesi in strada la quota percentuale di queste ultime aziende è preponderante, sia pure in maniera diversa in funzione del maggiore o minore sviluppo capitalistico del settore agricolo. Sono per la maggior parte i titolari di aziende piccole e piccolo-medie ad aver messo in moto i trattori, in Italia come altrove in Europa. Sono questi ultimi gli eredi dei contadini poveri di 50 o 100 anni fa (in rapporto con l’attuale sviluppo del capitalismo nelle campagne sono realmente poveri, anche se possiedono trattori costosi comprati con un mutuo che non riescono più a pagare).
A questi settori della piccola e media proprietà agricola, negli ultimi decenni governanti, parlamentari, partiti politici, sindacati agricoli, professori universitari e giornalisti che hanno costruito le proprie carriere sulle loro vite, gente che non ha mai piegato la schiena e non ha mai sporcato mani e scarpe nel duro lavoro della terra, tutti hanno fatto la lezione! Gli hanno chiesto di “misurarsi con il mercato”, di fare di tutto per diventare più forti nella competizione capitalistica. Ed essi hanno fatto di tutto, ma non gli è servito a niente, se non a illudersi temporaneamente che non sarebbero scesi più giù nell’abisso della miseria, come invece è accaduto. Li hanno sollecitati a unirsi in associazioni di produttori, organizzazioni di produttori, cooperative, consorzi, di aderire ai contratti di filiera, di fare domanda di finanziamento con i Por, i Psr e così via, di comprare, anche a debito, trattori e altre macchine agricole, di ammodernare le aziende, di fare ricorso alla consulenza di tecnici agricoli, di conseguire le certificazioni di qualità e di fare tanto altro ancora per “vincere la sfida del mercato”. Ed essi hanno fatto questo, hanno lavorato notte e giorno e si sono indebitati con le banche. Li hanno avvertiti che se non si davano da fare sarebbero spariti dal mercato ed essi si sono impegnati duramente. Ma tanti sforzi non sono bastati. La legge spietata della concorrenza nel mercato capitalistico (quello che chiamano “libero mercato”) ha dettato le sue regole. I grossi capitalisti agrari (società individuali, società di persone, società per azioni, grosse cooperative o consorzi di cooperative), quelli che assumono e sfruttano decine e/o centinaia di operai agricoli, braccianti stagionali o salariati fissi, riescono a essere competitivi e a resistere sul mercato. Gli altri, i piccoli, i piccolo-medi e persino alcuni medi agricoltori, quelli che non assumono forza lavoro salariata o ricorrono a essa in maniera sporadica o non prevalente, sono stati estromessi dal mercato, rovinati da un lato dalla concorrenza dei grossi capitalisti agrari e dall’altro dalla pressione sia del capitale industriale (le aziende produttrici dei mezzi tecnici agricoli, macchine agricole, sementi, agrofarmaci, fertilizzanti, ecc., che impongono prezzi sempre più alti) sia del capitale commerciale (dai commercianti privati alla grande distribuzione organizzata, che da un lato schiacciano i prezzi alla produzione verso il basso, facendo però schizzare in alto quelli ai consumatori, e dall’altro preferiscono importare – approfittando dei “corridoi verdi”, senza dazi, aperti dall’Unione europea (Ue) per favorire al contempo le esportazioni industriali comunitarie – grano, frutta, ortaggi, olio d’oliva, ecc. in modo da lucrare su prezzi alla produzione ancora più bassi in Ucraina, Egitto, Tunisia, Turchia e altrove). Nello scontro fra capitali quello agrario è storicamente più debole, solo le sue parti più strutturate riescono a partecipare alla spartizione di quote di profitto, le altre sono perdenti, la sconfitta li destina alla vendita o all’abbandono dell’azienda e li consegna alla discesa nella scala sociale, a diventare anch’essi operai agricoli. Questa è la miccia che ha scatenato la rivolta dei trattori. Anche se, ovviamente, gli agricoltori in strada non processano direttamente il “libero mercato”. Per essi i primi nemici sono coloro che gli impediscono di partecipare a esso. In primo luogo l’Ue e la sua Politica agricola comune (Pac).

I NEMICI, I MEDIATORI CHE HANNO TRADITO
Per gli agricoltori poveri sopravvivere nel mercato capitalistico è sempre stato difficile, ma per decenni l’Europa comunitaria ha mediato le contraddizioni con una Pac generosa, che li ha sorretti prima con la rete del sostegno dei mercati agricoli e poi con quella del sostegno ai redditi. Adesso che la Pac è diventata avara si sentono traditi e si rivoltano contro l’Ue.
Il sostegno dei mercati mirava a sostenere i prezzi di mercato di determinati prodotti agricoli attraverso la fissazione autoritaria di prezzi che garantissero un reddito minimo ai produttori. Però l’alto costo della politica di garanzia dei prezzi e i suoi effetti distorsivi (produzioni eccedentarie e di scarsa qualità, frodi comunitarie) hanno spinto dal 1988 prima la Comunità europea e poi l’Ue a diverse riforme della Pac, coincise con un calo continuo delle spese agricole nel bilancio comunitario, per destinare quote più grosse di bilancio all’allargamento dell’Ue ad altri paesi. Di fatto, mentre agli inizi degli anni 80 del secolo scorso la Pac costituiva il 66% del bilancio comunitario, nel periodo 2014-2020 ha toccato il 37,8% e nel periodo 2021-2027 rappresenta solo il 31%. Le riforme hanno ridimensionato fortemente gli interventi di mercato e orientato la Pac sempre di più verso un sostegno diretto al reddito degli agricoltori (pagamenti diretti annuali disaccoppiati, cioè indipendenti dalle colture praticate). Negli anni, però, i pagamenti diretti sono da un lato progressivamente diminuiti, dall’altro sono stati sempre più subordinati al rispetto di vincoli in materia di ambiente e clima (come l’obbligo di lasciare il 4% dei terreni a riposo). Di fatto sono stati ridotti a poche centinaia di euro all’anno, del tutto insufficienti a continuare a garantire un reddito agricolo minimo soddisfacente. La riduzione all’osso di tali autentici ammortizzatori sociali, con la riforma (novembre 2021) della Pac 2023-2027, è stata esasperata dal forte aumento di tutti i costi di produzione e dai gravi danni causati quasi ovunque dai cambiamenti climatici (siccità, alluvioni, fitopatie, ecc.), facendo esplodere contraddizioni nascoste o attutite per decenni. Vale la pena, tuttavia, ricordare che l’ultima riforma Pac è stata approvata dal Parlamento europeo quasi all’unanimità. Meloni, che adesso accusa la riforma Pac di “ambientalismo ideologico”, dice il falso quando sostiene di appartenere a “un partito che in Europa ha votato contro la gran parte delle questioni che oggi gli agricoltori pongono”. Salvini bara denunciando le “scelte folli” dell’Ue. In realtà i deputati europei di Fratelli d’Italia e Lega hanno votato a favore della nuova Pac! De Castro, europarlamentare Pd, partito favorevole alla riforma, adesso cerca di cavalcare la protesta dichiarando che sarebbe sbagliato ignorarla. E non va dimenticato che la riforma venne votata anche dal M5S, il cui ministro dell’Agricoltura nel governo Draghi, Patuanelli, si spese molto a suo favore. Anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha compiuto la giravolta del “grande annuncio”, alla plenaria del Parlamento europeo, di proporre al collegio dei commissari “il ritiro” della proposta legislativa sull’uso sostenibile degli agrofarmaci in ambito Ue, cioè il dimezzamento del loro impiego entro il 2030 (Sustainable use of pesticides regulation – Sur), contestato dagli agricoltori; in realtà già lo scorso novembre, quindi ben prima delle marce dei trattori, l’Europarlamento aveva bocciato non solo la proposta della Commissione europea, ma anche il rinvio del testo per un nuovo esame in commissione; in pratica von der Leyen ha presentato una “proposta di ritiro”, peraltro ratificando quanto già deciso dall’Europarlamento, come una grande concessione agli agricoltori in lotta!

CHE COSA CHIEDONO GLI AGRICOLTORI?
Anche se le proteste sono sorte con azioni spontanee, attraverso i social e il passaparola, senza l’avallo di alcuna sigla di categoria, molti degli agricoltori in strada si stanno organizzando in alcuni coordinamenti strutturati, attivi con iniziative in tutta Italia. A una lettura dei loro appelli si capisce che il livello di elaborazione dei programmi risente della presenza delle diverse componenti sociali agricole. Dove è più forte quella degli strati più poveri le rivendicazioni sono più radicali, così come l’attacco al governo centrale è più evidente.
Il C.R.A. (Comitati Riuniti Agricoli) – Agricoltori traditi, ad esempio, ha lanciato un appello, “Agricoltori, dal 22 gennaio in strada a oltranza!”, con queste motivazioni: “per la difesa dell’agricoltura e dei territori, martoriati dalle banche, offesi dalle importazioni, uccisi dallo Stato, per difendere tutto il mondo del lavoro, della piccola e media impresa, saccheggiato da una politica di incapaci e da politiche comunitarie vessatorie, per accusare i sindacati di tradimento verso tutti i lavoratori e complici del disastro economico che sta colpendo questa nazione. Una grande mobilitazione a oltranza del popolo per cacciare una classe politica illegittima, incapace, traditrice, parassita, serva di speculatori e banchieri e poter creare una politica fatta dai lavoratori e da tutte le classi sociali”.
“Riscatto agricolo” si definisce “un movimento autonomo spontaneo, apolitico, di giovani agricoltori, partito dal basso con lo scopo di dar vita a nuovo riscatto agricolo italiano. La nostra identità richiama i valori intrinseci degli agricoltori, che si riconoscono nel lavoro, nella famiglia, nelle tradizioni, nel talento, nella passione e nei valori dei nostri territori”. Ha pubblicato un manifesto programmatico in dieci punti, ritenuti fondamentali per la sopravvivenza e il rilancio del settore primario italiano: revisione completa della Pac; divieto di importazione di prodotti agricoli provenienti da paesi dove non sono in vigore gli stessi regolamenti produttivi e sanitari vigenti in Italia e Ue, a vantaggio dei prodotti italiani; istituzione di un tavolo tecnico di soli veri agricoltori, che siano coinvolti ogni qualvolta si vari o si ritocchi una normativa che riguardi direttamente o indirettamente il settore agricolo e alimentare; abolizione immediata di vincoli e incentivi per non coltivare i terreni, come l’obbligo di non coltivare il 4% dei terreni; detassazione in agricoltura (Irpef-Imu); mantenimento anche dopo il 2026 dei prezzi calmierati del gasolio agricolo; regolamenti stringenti contro l’ingresso sul mercato di cibi sintetici; riduzione o eliminazione dell’Iva su alcuni prodotti alimentari primari; contenimento della fauna selvatica e risarcimento in tempi brevi dei danni diretti e indiretti da essa provocati; riqualificazione della figura dell’agricoltore/allevatore, valorizzandola e non additandola come responsabile dell’inquinamento ambientale (con disponibilità a ridurre l’uso di agrofarmaci a patto di ricevere sussidi consistenti per ripagare il calo delle rese produttive in campo).
È incontestabile che in queste rivendicazioni si senta l’eco di nazionalismi antieuropei, di mitici valori tradizionali che lo stesso capitalismo sta spazzando via. Ma gli uni e gli altri vengono messi in secondo piano da vere e proprie dichiarazioni di guerra contro le classi superiori, contro le grandi aziende capitalistiche e i governi che le rappresentano. Ogni movimento profondo delle classi non è ciò che crede di essere, ma ciò che è in realtà, e oggi siamo di fronte in tutta l’Europa a una “moderna” meccanizzata rivolta degli agricoltori poveri che si scontrano con il grande capitale finanziario, industriale e commerciale che li sta strangolando.

QUALI SARANNO GLI SBOCCHI DI QUESTA LOTTA?
Gli agricoltori che hanno messo in moto i trattori hanno un grosso problema al loro interno: fino a che punto quelli fra loro economicamente più forti e più legati alla politica italiane ed europea, allo Stato italiano e all’Ue, continueranno la lotta a fronte di piccole favorevoli concessioni? Quanto la maggioranza di agricoltori poveri riusciranno a tenere in azione il movimento fino a ottenere sostanziali miglioramenti rompendo ogni legame con i sindacati compromessi e con le forze politiche sia del governo sia dell’opposizione? Se questi ultimi resisteranno e manterranno ferme le loro richieste, andranno naturalmente allo scontro con il governo. Meloni ha riciclato l’annuncio già dato a novembre scorso che la revisione del Pnrr approvata dalla Commissione europea prevede un aumento della dotazione finanziaria per l’agroalimentare da 3,68 a 6,53 miliardi di euro, che con i fondi del Piano nazionale complementare arrivano a circa 8 miliardi di euro (ma non sono soldi che gli agricoltori poveri vedranno!). E non ha potuto nascondere che il suo governo nell’ultima legge di Bilancio non ha rifinanziato l’esenzione Irpef per i redditi agricoli (generati da attività agricola) e i redditi dominicali (generati dalla proprietà agricola) e che il ministero dell’Agricoltura a gennaio ha tagliato i fondi per le polizze assicurative agricole. I partiti, di governo e di apposizione, cercano di scartare le proprie responsabilità dagli effetti della Pac e annunciano correttivi inconcludenti. I sindacati agricoli tradizionali privilegiano, nelle loro “critiche” alla riforma Pac, un approccio istituzionale. Gli uni e gli altri cercano di contenere la rabbia degli agricoltori poveri. Ci riusciranno? È una partita aperta, il cui esito dipende dalla volontà di questi ultimi di mantenere obiettivi chiari e di tenere duro per raggiungerli, senza accontentarsi di belle promesse e di inutili briciole, nonché di fare i conti al loro interno con coloro che fino a ieri hanno appoggiato le organizzazioni governative e hanno contribuito a fare da massa di sostegno ai governi dei signori. La loro radicalità produrrà anche il risultato di ottenere l’appoggio di operai e altri strati sociali popolari, i quali, peraltro, manifestano apertamente la loro simpatia verso gli agricoltori in strada. Per noi un risultato lo hanno comunque già conseguito nei fatti. La loro lotta smentisce in pieno coloro che negano l’esistenza di contraddizioni sociali e, quindi, l’attualità della lotta di classe.
L.R.

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