Governo e sindacati, dopo il fallimento dell’avventura ArcelorMittal, puntano ad affidare l’impianto siderurgico a un gruppo industriale che lo rimetta in moto. Ma sanno anche che non sarà indolore per gli operai. Perciò stanno studiando come fargliela ingoiare
Che cosa succede all’ex Ilva? Apparentemente nulla, tutto sembra tacere. Ma è quando “non accade niente” e domina il “silenzio” che si preparano le trappole per gli operai. Dopo, quando scoppia il clamore, le trappole sono già scattate. È perciò utile per gli operai, oltre a ricordare tutto quanto hanno patito sulla propria pelle negli ultimi sei anni, anche indagare sulle manovre in atto sotto traccia nel più grande impianto siderurgico italiano. Perché sono per loro molto pericolose.
LE FALSE PROMESSE SINDACALI DELL’ACCORDO DEL 2018
Dopo l’accordo del 6 settembre 2018 firmato dalle dirigenze sindacali di Fiom, Fim, Uilm e Usb e avallato dal governo Conte I (M5S e Lega), che lo consegnava alla multinazionale lussemburgo-indiana ArcelorMittal, l’intero impianto occupava, nei suoi otto stabilimenti, 10.700 dipendenti (di cui 8.200 in quello di Taranto). I quattro sindacati pressarono fortemente gli operai affinché votassero, nel referendum appositamente indetto, a favore dell’accordo, per dare il via libera all’ingresso di ArcelorMittal nell’ex Ilva, che dal 2012 era sotto inchiesta giudiziaria contro i precedenti proprietari, i Riva, per disastro ambientale, con sequestro degli impianti e arresto di titolari e dirigenti. I sindacati promisero agli operai che l’accordo e il voto favorevole nel referendum sarebbero stati il punto di partenza sia per il rilancio della fabbrica con la piena occupazione sia per il risanamento ambientale rivendicato con urgenza dagli abitanti di Taranto, città da tempo gravemente esposta all’inquinamento prodotto dall’Italsider/Ilva, causa di decine di morti per cancro soprattutto nei vicini quartieri operai di Tamburi e San Paolo.
Ma per gli operai le cose da subito non andarono secondo le false e opportunistiche promesse sindacali. L’accordo portò all’espulsione dal ciclo produttivo di oltre 3.000 operai, dei quali 2.600 a Taranto, dove 1.000 si erano autolicenziati accettando la buonuscita e 1.600 erano stati costretti alla cassa integrazione, nella cosiddetta “Ilva in a.s.” (amministrazione straordinaria), dalla vecchia/nuova dirigenza, che aveva colpito i più combattivi, quelli che avevano contrastato le pessime condizioni di lavoro nello stabilimento siderurgico e il disastro ambientale causato da questo. Gli altri dipendenti, in grandissima parte operai, furono costretti prima alle dimissioni consensuali dall’Ilva, rinunciando al diritto di continuità lavorativa (diritto garantito nei casi di cessione di ramo d’azienda dall’art. 2112 del Codice civile, che avrebbe permesso a ogni operaio di mantenere livello, mansioni, luogo di lavoro e retribuzione uguali a quelli precedenti), e dopo a essere assunti ex novo, dal 1° novembre 2018, dalla nuova società creata da ArcelorMittal, AM InvestCo Italy, accettando tutte le condizioni peggiorative da questa imposte (luogo di lavoro anche in altre sue sedi; livello e inquadramento del CCNL sulla base del contratto applicato dalla società). Sindacati e governo avevano lasciato ad ArcelorMittal mano libera nella gestione della forza lavoro, purché si prendesse la patata bollente di far ripartire l’ex Ilva dopo la fine dell’epoca dei Riva, queste furono le prime amare conseguenze per gli operai.
DAL 2018 CONDIZIONE OPERAIA PEGGIORATA ULTERIORMENTE
Dal 2018 la condizione lavorativa degli operai rimasti in fabbrica è costantemente peggiorata, con l’aumento continuo degli infortuni. Con la creazione di Acciaierie d’Italia – così venne rinominato il gruppo a seguito dell’ingresso, il 15 aprile 2021, di Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, un’agenzia governativa italiana costituita come società per azioni e partecipata interamente dal Ministero dell’economia e delle finanze) nel capitale sociale di AM InvestCo Italy, con una partecipazione del 38% del capitale sociale, mentre la restante partecipazione del 62% restava ad ArcelorMittal – la condizione operaia peggiorò ulteriormente: migliaia di operai furono messi a più riprese in cassa integrazione, in funzione degli interessi della multinazionale, obbligati a lavorare durante il periodo del Covid-19, persino se positivi al virus, e lasciati fuori quando non servivano. Infine, dopo l’avvio, lo scorso 20 febbraio, da parte di Invitalia della procedura di amministrazione straordinaria per Acciaierie d’Italia, oltre ai circa 1.600 operai in cassa integrazione storica in Ilva in a.s., altri 3.000, di cui 2.500 a Taranto, già in cassa integrazione straordinaria, sono stati confermati in essa. Nei mesi successivi, con un solo altoforno attivo e la produzione in continuo calo, altri operai sono stati mandati in cassa integrazione. Anche gli operai delle imprese dell’indotto, le quali vantano crediti per 150 milioni di euro nei confronti di Acciaierie d’Italia e hanno in gran parte sospeso le attività di mantenimento degli impianti, sono in larghissima parte cassintegrati. Nelle ultime settimane i commissari straordinari di Acciaierie d’Italia hanno preannunciato che avvieranno a breve la procedura per una nuova cassa integrazione, che interesserà un numero maggiore di dipendenti siderurgici rispetto a quello attuale. Tutto quanto avviene in sordina, senza particolari clamori politici e sindacali. Per il futuro il governo promette fumo, i sindacati brontolano perchè non vedono “un cambio di passo”.
PIEGARE LA SCHIENA PER RENDERSI APPETIBILI AL NUOVO PADRONE
A febbraio il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, in visita allo stabilimento di Taranto, incontrando le rappresentanze sindacali e un gruppo di operai, si era rivolto a tutti gli operai in produzione per chiedere loro di lavorare sodo a far bella la fabbrica e renderla appetibile al prossimo assegnatario, al nuovo padrone: “Dobbiamo lavorare insieme per rilanciare e mettere in sicurezza il sito siderurgico più importante d’Italia. Vi chiedo piena e massima collaborazione e vi darò la piena e massima collaborazione del governo e di tutte le istituzioni. Dobbiamo dimostrare che questo è il sito della città, che questo è il sito siderurgico della nostra nazione. Vogliamo rilanciarlo e assegnarlo poi a un player industriale importante e significativo che scommetta sul sito e quindi sul lavoro di Taranto per affermarlo in Italia e in Europa. Aiutateci a raggiungere questo obiettivo a nome dei lavoratori italiani perché noi siamo convinti che la scommessa di ciascuno di noi è nel lavoro che esercita e vogliamo restituire ai lavoratori, a tutti i lavoratori, in qualunque ambiente essi operino, l’orgoglio di essere lavoratori italiani. E io credo che insieme riusciremo a ripristinare a Taranto l’orgoglio di essere lavoratori del sito siderurgico Acciaierie d’Italia”. Una chiamata a farsi sfruttare ancora di più in nome di un presunto orgoglio nazionale e nazionalistico che agli operai non appartiene, perché chi piega la schiena in fabbrica sotto la sferza dei cani del padrone per un salario da fame non prova alcun autocompiacimento per la propria misera sorte pensando alla chiacchiera vuota di fare bello il paese in cui vive!
COME FAR INGOIARE AGLI OPERAI LA NUOVA GESTIONE PADRONALE?
Alle parole del ministro Urso i dirigenti sindacali sorrisero concordi, gli operai che accennarono alla loro povertà conclamata dalla continua cassa integrazione a rotazione non vennero ascoltati da nessuno. Ma col tempo le dirigenze sindacali di Cgil, Cisl, Uil e Usb sono diventate sempre più nervose: si sono tanto battute per cacciare ArcelorMittal e reclamare il passaggio alla proprietà pubblica, come soluzione di tutti i problemi dell’ex Ilva, hanno messo ulteriormente in gioco una reputazione già compromessa e adesso non sanno che cosa promettere ancora per continuare a zittire gli operai. A Urso che nei giorni scorsi ha annunciato la presentazione a breve del piano industriale, ha “replicato” il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, sostenendo che “al di là dei primi segnali ricevuti a marzo di atteggiamenti sicuramente più propositivi da parte anche dei commissari, dal punto di vista sostanziale e per le prospettive future la situazione è rimasta statica”. Sembrano “battibecchi concertati”, promesse e mal di pancia che somigliano tanto a quelli di sei anni fa prima di cedere l’Ilva ad ArcelorMittal. Ma oggi, come e più di sei anni, fa governo e sindacati sanno che rischiano di scottarsi terribilmente con la patata ancora più bollente della gestione dell’Ilva. L’uno attuale comitato d’affari del capitalismo italiano e gli altri pienamente organici a esso hanno l’obiettivo cosciente di dover cambiare il padrone dell’impianto siderurgico, di individuare e definire colui che, da solo o con un intervento pubblico parziale (il governo ha infatti categoricamente smentito che la gestione possa essere interamente pubblica), dovrà assumerne la conduzione. E sanno bene che gli interessi del capitalista, qualsiasi sia l’impresa o il gruppo industriale e chiunque ne sia alla testa, sono sempre gli stessi: licenziare, ridurre la forza lavoro e spremere quella restante per rendere conveniente la produzione di acciaio. Lo aveva anticipato nei mesi scorsi Lucia Morselli, ex amministratore delegato di Acciaierie d’Italia (in quota ArcelorMittal), sostenendo che il problema vero dell’impianto era che bisognava licenziare almeno 3.000 operai, meglio 5.000! Governo Meloni e sindacati puntano, quindi, ad affidare l’impianto siderurgico dell’ex Ilva a un gruppo industriale importante che lo rilanci in Italia e in Europa, anche se con alcuni distinguo: il governo è più propenso a un controllo governativo esterno, invece i sindacati continuano a chiedere una presenza pubblica nella prossima gestione dell’impianto, illudendosi, e cercando di illudere gli operai, di riuscire così a temperare gli appetiti dei nuovi padroni, perché nei loro programmi presenti e futuri non esiste l’organizzazione di lotte serie, oggi per far rientrare tutti gli operai al lavoro e domani per impedire nuovi ricorsi alla cassa integrazione e migliorare le condizioni di lavoro. Anzi governo e sindacati sanno bene che la prossima gestione padronale non sarà affatto un’operazione indolore per gli operai. E, dopo il fallimento della disastrosa avventura ArcelorMittal, non sanno come fargliela ingoiare; ne cominceranno a discutere nella riunione che il governo ha programmato per il 29 aprile con Cgil, Cisl, Uil, Usb e Ugl metalmeccanici. Gli operai, perciò, sono avvertiti: sono in atto manovre che, se non contrastate in tempo e con efficacia, incideranno pesantemente e lasceranno il segno sul corpo sociale operaio dell’ex Ilva e dello stabilimento di Taranto in particolare.
L.R.