EX ILVA, LA CASSA INTEGRAZIONE MASCHERA I LICENZIAMENTI

La questione è chiara anche per l’ultimo degli operai. Chi firma la cassa integrazione oggi firma per i licenziamenti domani. Se vogliono l’acciaio ogni operaio ha diritto al suo posto di lavoro, senza andare in cassa integrazione. Ma chi può condurre una trattativa seria se non gli operai stessi?

La questione è chiara anche per l’ultimo degli operai. Chi firma la cassa integrazione oggi firma per i licenziamenti domani. Se vogliono l’acciaio ogni operaio ha diritto al suo posto di lavoro, senza andare in cassa integrazione. Ma chi può condurre una trattativa seria se non gli operai stessi?

Il gruppo Acciaierie d’Italia (AdI) in amministrazione straordinaria lo scorso giugno, dopo l’incidente dell’altoforno 1 avvenuto a maggio nello stabilimento siderurgico di Taranto e il suo successivo sequestro, ha presentato una richiesta di cassa integrazione, nella quale già versano 3000 dipendenti, per ulteriori mille. Per la precisione la richiesta di estensione della cassa integrazione fino a marzo 2026 riguarda 4050 dipendenti, quasi totalmente operai, dei quali 3500 a Taranto. La motivazione è che, in attesa dell’esito della seconda gara per trovare nuovi investitori per l’ex Ilva, la produzione di acciaio è crollata ai minimi storici. L’incontro al ministero del Lavoro sulla richiesta dell’azienda avverrà nelle prossime settimane. I sindacati, intanto, hanno incontrato i gruppi parlamentari pugliesi “per esplicitare le preoccupazioni e discutere lo stato della vertenza”.

Nel balletto solo in apparenza confuso di proposte e controproposte, con cui governo, partiti e sindacati intendono dare un futuro sul mercato capitalistico all’AdI/ex Ilva, la prima questione certa e di reale interesse per gli operai è proprio l’ampliamento della cassa a 4050 dipendenti. Se la richiesta diventerà operativa, migliaia di operai continueranno a sopravvivere con un salario fortemente decurtato o dovranno iniziare a fare i conti con la povertà conclamata dall’entrata in cassa integrazione. Ma c’è di più. Questa richiesta rappresenta l’anteprima dell’espulsione di forza lavoro, sotto forma di cassa/mobilità/prepensionamenti/licenziamenti, che la riconversione produttiva legata alla decarbonizzazione, con il passaggio dagli altoforni ai forni elettrici, comporterà per più di 4000 dipendenti, sempre in gran parte operai (con effetto a cascata sugli operai delle imprese dell’appalto). Di questa espulsione programmata tutti sanno, ma nessuno parla. La richiesta di ampliamento della cassa integrazione è utile, quindi, per cominciare a mettere oggi fuori dal ciclo produttivo chi domani non servirà più. Sullo sfondo ministri, politici e sindacalisti assicurano o implorano, in base al rispettivo ruolo, la tutela occupazionale come “principio inderogabile”. Ma sanno bene che per essi, di fronte alla valorizzazione dello stabilimento siderurgico tarantino nel mercato capitalistico, il rispetto di tale tutela è carta straccia.

La seconda questione certa e di reale interesse per gli operai che rimarranno in fabbrica riguarda le condizioni ambientali in cui dovranno produrre. A luglio il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (Mase) ha rinnovato, con apposito decreto, l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per l’esercizio degli impianti dello stabilimento siderurgico di Taranto. È stata una prova di forza del governo Meloni per assicurarsi senza garanzie la continuità produttiva dell’impianto. L’Aia era attesa dopo la firma dell’accordo di programma fra governo ed enti locali, che doveva fissare i tempi per la decarbonizzazione. Tempi che operai, proletari e associazioni tarantine, impegnate contro i danni alla salute e all’ambiente causate da decenni dallo stabilimento siderurgico, chiedevano fossero brevi, brevissimi. Invece il Mase ha forzato la mano per mettere tutti davanti al fatto compiuto: 12 anni per la definitiva decarbonizzazione con una produzione annua di 6 milioni di tonnellate di acciaio. Per il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin “si tratta di un provvedimento fondamentale perché coniuga la necessità di garantire la continuità produttiva di un polo strategico per il Paese con la massima attenzione alla tutela della salute e dell’ambiente”. Per il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, intervenendo al plaudente congresso della Cisl: “Taranto continuerà, lo stabilimento è salvo. La siderurgia italiana è salva, l’industria italiana può ancora avere l’acciaio”. Per gli operai che rimarranno in produzione è la condanna non solo a produrre i 6 milioni di tonnellate preventivati a ritmi e in condizioni insostenibili, ma anche a farlo per altri 12 anni fra le pericolose e dannose polveri di carbone. Per gli operai e i proletari che abitano e vivono nei quartieri prossimi alla fabbrica è la prosecuzione di una inenarrabile pena umana quotidiana.

Le intenzioni di governo ed enti locali sul futuro dello stabilimento tarantino sono chiarissime. La firma ad agosto della bozza di intesa dell’accordo di programma interistituzionale ha messo nero su bianco che il loro obiettivo è mantenerlo attivo e produttivo – con quanti operai e in quali condizioni di sicurezza non è dato saperlo, attuando una lenta decarbonizzazione – e metterlo sul mercato nell’ambito della vendita di AdI. Tre forni elettrici sostituiranno gradualmente gli altoforni alimentati con carbone coke metallurgico, fondente e minerale ferroso. La bozza di intesa non specifica quali saranno i tempi della decarbonizzazione e del passaggio alla produzione con forni elettrici, dove sarà localizzato il polo Dri per produrre il preridotto necessario ad alimentare i forni elettrici, se il gas necessario a questo polo deriverà da un gasdotto o da una nave rigassificatrice ancorata nel porto di Taranto. Poi si vedrà. Quel che conta, come ha fatto scrivere Confindustria nel suo organo di stampa ufficiale, Il Sole-24 Ore, è che lo stabilimento di Taranto non chiuderà e non verrà riconvertito ad altre produzioni: l’acciaio prodotto a Taranto serve ancora per produrre automobili, carri armati, navi civili, navi da guerra, turbine e componenti di grandi dimensioni per le infrastrutture e, quindi, per generare immensi profitti. L’approvazione surrettizia dell’Aia e la firma della bozza di intesa dell’accordo di programma interistituzionale certificano che la decisione assunta con chiarezza da industriali, governo nazionale ed enti locali se ne infischia delle illusorie battaglie, anche in sede giudiziaria, di associazioni ambientaliste e reti civiche volte alla chiusura o alla riconversione produttiva dello stabilimento tarantino, in sostanza finalizzate a riformare la produzione capitalistica senza mettere in discussione il nucleo fondante di essa: fare profitti ad ogni costo! Stoppano, inoltre, qualsiasi velleità di definire il futuro della fabbrica tarantina per via giudiziaria, smontando, di fatto, sentenze come quella (attesa da oltre un anno!) del Tribunale di Milano, chiamato a decidere su un ricorso presentato da un gruppo di cittadini contro l’ex Ilva, “per pericoli gravi per l’ambiente e la salute umana”: i magistrati non oseranno opporsi all’enorme forza congiunta della triade Confindustria-governo Meloni-enti locali.

Per gli operai dell’AdI/ex Ilva si annunciano, dunque, tempi difficili. Che per operai già abituati in fabbrica a difficoltà di ogni tipo suonano come tempi veramente penosi, faticosi, ardui. Chi ha sperato nell’aiuto di esponenti degli enti locali (Regione Puglia, Provincia di Taranto, Comune di Taranto, Comune di Statte) dovrà ricredersi: i loro rappresentanti si sono dimostrati fino in fondo chiacchieroni, asserviti al potere industriale e compiacenti verso esso, hanno accusato “mal di pancia” verso l’accordo di programma per distrarre operai e proletari sempre più insofferenti verso la delittuosa gestione dello stabilimento, ma alla fine hanno firmato una bozza di intesa che allunga di molto i tempi della decarbonizzazione. Come il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano che, con i suoi soliti modi pomposi e vuoti, ha salutato la firma della bozza di intesa dell’accordo di programma sostenendo che “è un giorno che resterà nella storia della Puglia e dell’Italia intera” e che una delle più grandi fabbriche d’Europa “può finalmente rinascere in armonia con il diritto inviolabile alla vita, alla salute, al lavoro e alla tutela ambientale”! O come il nuovo sindaco di Taranto Piero Bitetti che prima ha annunciato la contrarietà al piano di decarbonizzazione proposto dal governo Meloni e dopo, con una giravolta, ha apposto la propria firma asserendo di aver firmato “un documento, non un accordo di programma”! Chi ha riposto fiducia nell’azione degli ambientalisti dovrà considerare che, seppur valida, è limitata e parziale, perché cerca soluzioni che si rivelano vane e impossibili nel quadro dell’economia capitalistica. Chi ha delegato la soluzione di ogni problema all’attività dei sindacati dovrà riflettere che da anni i dirigenti di Fiom, Fim, Uilm e Usb abbaiano alla luna dicendo che “la tutela occupazionale è imprescindibile”, ma non muovono un dito per organizzare una lotta seria degli operai a Taranto e nelle altre fabbriche del gruppo (esattamente come gli esponenti del governo Meloni ripetono, al pari di un disco incantato, che la situazione a Gaza è “inaccettabile”, ma non applicano la minima sanzione contro il governo Netanyahu, d’altra parte appartengono tutti alla stessa pasta antioperaia e antipopolare). Dopo tanti anni di propaganda e ricatti, in cui dirigenti sindacali a ogni livello e capetti aziendali di ogni tipo hanno cercato di coinvolgere gli operai nelle scelte produttive di questo o quel dirigente d’azienda con impegni sulla loro condizione in fabbrica mai mantenuti, oggi diventa difficile non riconoscere, e trarne le dovute conseguenze, che gli operai, senza o con la decarbonizzazione, restano schiavi salariati. Gli operai hanno un solo dovere: difendere il salario, difendere la pelle. In cassa integrazione perdono quasi metà salario, al lavoro, nelle condizioni imposte dal padrone, perdono la vita. Un sasso in questo pantano lo possono lanciare solo quelli che in acciaieria hanno lavorato e nelle vicinanze hanno vissuto, uniti fra loro, hanno tutto l’interesse a far valere la forza di essere migliaia per opporre un netto rifiuto oggi al mantenimento e all’estensione della cassa integrazione e domani all’espulsione di forza lavoro dal ciclo produttivo sia nello stabilimento siderurgico di Taranto sia altrove.
L.R.

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