Trump spara a zero, poi si ritira, poi rilancia… ma la Cina è un osso duro. È più facile intimorire i capitalisti europei, fino ad ieri stretti alleati. Intanto il commercio mondiale sbanda ed è la prova, per chi la vuol vedere, che è il sistema del capitale in crisi.
Dalla mezzanotte del 6 agosto 2025 (ora rigorosamente di Washington, che detta legge a tutto il mondo) “Miliardi di dollari, provenienti in gran parte da paesi che hanno tratto profitto dagli Stati Uniti con entusiasmo, inizieranno ad affluire negli Usa”. Parole di Trump sul suo social Truth. La data sarà ricordata insieme a quella del 2 aprile, quando ci fu l’altra sua sceneggiata, quella del “Liberation Day” con la lavagnata dei dazi secondo una formula matematica che nessuno ha compreso. Dazi poi ritirati in neanche una settimana, dopo che le borse erano crollate pericolosamente. Vedremo nelle prossime settimane cosa succederà e quanti dei nuovi dazi annunciati adesso rimarranno, Trump ha educato il mondo alla nuova era che è fatta di continui e repentini suoi cambiamenti, ma anche della certezza che indietro non si torna, al più si precipita nel conflitto più totale.
GLI USA CONTRO IL RESTO DEL MONDO
Quello su cui vogliamo concentrare l’attenzione è pertanto sui primi effetti della guerra commerciale tra Usa e resto del mondo a colpi di dazi in questi 6 mesi di nuova amministrazione USA con il Trump 2. Effetti sugli operai, i loro salari, i prezzi delle merci che consumano, i licenziamenti e le condizioni lavorative.
Sul commercio internazionale, sulla produzione industriale, sul pil, l’eventuale recessione che i dazi potrebbero o non potrebbero scatenare negli Usa e nel resto del mondo, centinaia di studi e articoli ci vengono invece continuamente propinati sui media. Ne troviamo sia che sostengono la tesi che i dazi portino alla crisi (recessione), o il suo contrario che della crisi i dazi ne siano il più genuino prodotto.
Forse tra questi ultimi, in fin dei conti, potremo proprio annoverare Trump e tutti i suoi fedeli collaboratori e sostenitori, che con il loro bambinesco linguaggio -“i dazi sono belli”, “faranno di nuovo grande l’America”, ci faranno fare un “sacco di soldi” per il bilancio dello Stato-, a modo loro riconoscono una crisi epocale in corso, che da anni colpisce l’economia capitalistica, a partire dalla prima potenza mondiale. È in fin dei conti proprio in seguito a questa che al “grande pensatore” eletto negli Stati Uniti è venuto nel cervello che, tassando tutte le merci provenienti dal resto del mondo, “lui” risolverà ogni cosa.
CHI DETTA LEGGI SUL MERCATO MONDIALE
La crisi ha generato Trump e con lui i dazi, nella versione sfacciatamente arrogante del più forte che detta le sue leggi sul commercio a tutti gli altri, e in questo modo, ancora una volta nei cicli storici del capitalismo, si è sostituito al libero commercio il protezionismo.
Gli sviluppi di tutto ciò, con i dettagli di come andrà a finire davvero la guerra commerciale mondiale con i dazi è forse presto per dirlo, occorrono più mesi per vedere appieno gli effetti globali di tali sconquassi nello scambio di merci tra continenti. Anche perché Trump, soprannominato TACO (“Trump Always Chikens Out”, tradotto, “Trump se la fa sotto”), prima minaccia dazi abnormi, poi quando chi ha di fronte non si piega o i mercati finanziari volgono al peggio, rinvia la loro applicazione di mesi per poi rimetterli su alcune particolari merci come alluminio e acciaio; ad aprile sostiene che “tutti gli hanno baciato il culo”, ma ad oggi solo con 4 paesi può vantare delle intese raggiunte, che sono ben lontane da poter essere considerati veri accordi commerciali. Peraltro, anche le cosiddette intese (Deals) vengono puntualmente rimesse in discussione con un suo nuovo messaggino inviato a notte inoltrata negli USA sulla sua piattaforma social, Truth.
Per gli altri paesi con cui non ci sono state “intese” ci sono solo diktat senza appello, talvolta come per il Brasile senza le ragioni di solito addotte del deficit commerciale (è il Brasile semmai che dovrebbe mettere i dazi per rimettere in pareggio la bilancia commerciale con gli USA) ma per ragioni esplicite di sostegno politico all’oppositore di Lula, Jair Bolsonaro, arrestato per tentativo di colpo di stato.
La cronistoria di una di queste intese, quella con la “cattiva” Cina, che è in realtà una tregua di 90 giorni fino al 12 agosto a cui ne seguiranno forse altrettanti, illustra bene il modo di operare del personaggio Trump e della sua amministrazione, ma fa anche capire quali sono le poste in gioco. I dazi alle merci provenienti dalla Cina sono tra i primi a essere stati messi. Ma su quel fronte di guerra, nelle settimane successive il 2 aprile, è anche dove sono state usate da ambo le parti le armi più potenti.
CON LA CINA NON SI SCHERZA
Trump ha iniziato la guerra economica a fine gennaio con dazi al 10%, la Cina che si era preparata da mesi gli ha risposto prontamente con il 15%. Allora, Trump ha sparato in marzo un altro 10%, la Cina ha risposto con altri 15%. Ad aprile, dopo la sceneggiata del Liberation Day, quando vengono sospesi i dazi fino a luglio nei confronti di Europa e resto del mondo, restano invece quelli contro le merci importate dalla Cina. Anzi, per quel paese, Trump mette in atto la sua minaccia di escalation per chi non accetta i suoi primi dazi: spara prima dazi al 100% – a cui la Cina risponde con un 84% – per poi arrivare al 145%. La Cina concluderà arrivando al 125%, annunciando contemporaneamente che non seguiranno ulteriori risposte perché, dopo lo scambio di quelle potenti “bombe”, il commercio di merci tra i due paesi (circa 800 miliardi di dollari) è stato ormai completamente distrutto e non ci sarebbe null’altro da radere al suolo. Se Trump avesse dato ordine alla sua marina di colpire e affondare le navi mercantili cinesi, avrebbe in pratica ottenuto lo stesso risultato sul commercio tra le due potenze.
Il TACO- Trump ritirerà, nell’arco di 24 ore, i dazi sugli apparati elettronici, quando gli fanno presente che sugli scaffali americani non ci sarebbe più stato neanche un PC o un cellulare, ma li lascerà al 145% sul resto delle merci. Per fare un esempio significativo, a fine aprile Temu, piattaforma cinese di commercio online con 186 milioni di utenti nordamericani e 1 milione di pacchi spediti al giorno negli USA, annuncia che dal primo di maggio sospenderà le vendite di tutte le merci in partenza dalla Cina, le altre piattaforme di e-commerce cinesi come Shein avevano nel frattempo rincarato i prezzi di vendita delle merci dalla Cina del 145%.
È così che si arriva alla seconda delle 4 intese vantate da Trump. È il fine settimana del 10-11 maggio, siamo a Ginevra, Svizzera, nella residenza dell’ambasciatore elvetico all’ONU (tradizione bellica rispettata), e più che un accordo è una tregua di 90 giorni: le delegazione di Usa e Cina si impegnano nel breve a riportare i dazi sulle altrui merci rispettivamente dal 145% al 30% e dal 125% al 10% e a promuovere ulteriori incontri per dirimere le controversie. Inoltre in quell’accordo si prevedeva la rimozione del blocco all’esportazione di “Terre rare” negli USA da parte della Cina. Le “terre rare”, di cui la Cina detiene oggi il quasi monopolio, è l’altra arma con cui il governo cinese si è preparato da mesi a fronteggiare il “bullismo” di Trump. Al punto che quando Ford (tra i produttori di autoveicoli americani forse quello che più ha conservato la produzione sul suolo statunitense, tanto cara a Trump e ai sindacati nazionalisti USA) si è trovata ai primi di giugno a dover fermare le proprie fabbriche per la mancanza di componenti che contengono quei metalli, il TACO-Trump ha dovuto togliere l’impedimento alla vendita di nuovi chip per l’intelligenza artificiale di Nvidia, che la Cina non riesce ancora a sostituire con produzione propria. Insomma, come scrivono apertamente i media cinesi, cavalcando a loro volta bellamente sentimenti nazionalistici, la guerra commerciale con la Cina si sta dimostrando una vera debacle per Trump: in pratica si è trovato “lui” a “baciare il culo” al sornione Xi Jimping.
PRIMO EFFETTO DELLA GUERRA DEI DAZI: LICENZIAMENTI
Dicevamo: quali sono stati gli effetti di questa guerra dei dazi? Del fermo della produzione nelle fabbriche Ford abbiamo già detto, aggiungiamo che secondo i dati del Bureau of Labor Statistics l’occupazione nel solo settore manifatturiero dei veicoli a motore è diminuita tra aprile e luglio di 5.600 unità. Al contrario la situazione per i prezzi degli autoveicoli che, con dazi mediamente del 25% sui componenti, hanno risentito di conseguenti aumenti. In conclusione, meno auto vendute, meno operai statunitensi necessari alla produzione, prezzi delle auto in crescita.
Ad allargare il quadro a tutti i settori sono però stati i dati pubblicati (1 agosto 2025) sui nuovi posti di lavoro, un indicatore molto seguito dalla Fed insieme a quello sull’inflazione, che rovesciano completamente la narrativa di Trump che i dazi da lui messi salvaguardino gli operai dai licenziamenti e portino alla creazione di nuovi posti di lavoro per il ritorno in patria delle produzioni. Non solo l’ultimo di luglio con soli 73 mila nuove buste paga, quando se ne aspettavano 110 mila, ma anche la sorprendente revisione del dato di giugno con 147 mila aggiornato a soli 14 mila, e del dato di maggio con 139 mila aggiornato a 19 mila. Un bagno di realtà, con circa 250 mila nuovi posti di lavoro esistenti solo sulla carta e improvvisamente scomparsi, che è anche un bilancio completamente negativo sul fronte occupazionale del primo semestre Trump. Naturalmente dopo la pubblicazione di questi dati Trump ha ordinato il licenziamento della responsabile del Bureau of Labor Statistics, Erika McEntarfer, scrivendo sul suo social, Truth, che fossero falsi e che “L’economia è in forte espansione sotto ‘Trump’, nonostante una Fed che gioca anche con i tassi di interesse, che ha abbassato due volte, e in modo sostanziale, poco prima delle elezioni presidenziali, presumo nella speranza di far eleggere ‘Kamala’. Come è andata a finire? Anche Jerome ‘Too Late’ Powell dovrebbe essere ‘messo in pensione'”.
Solo che i dati reali sono ostinati e anche l’indice ISM (Index supply Manager), un indice che si basa sul sondaggio mensile ai direttori degli acquisti delle imprese, che sotto il valore di 50 segnala decrescita. In particolare il sottoindice dell’occupazione con un 46,4 indicatore di recessione, mentre sui prezzi per materiali e servizi l’indice segnala un aumento ai massimi dall’ottobre 2022. Così scrive Il sole 24 ore del 6 agosto riassumendo quanto l’ISM stia segnalando ripetutamente da 4 mesi: “le imprese, alle prese con domanda debole e aumento dei costi, stanno iniziando a ridurre gli organici”.
SECONDO EFFETTO DELLA GUERRA DEI DAZI: AUMENTO DELL’INFLAZIONE CADUTA DEI SALARI
Spostiamo dunque l’attenzione sull’inflazione. Qui sono i dati di maggio e giugno che segnalano le prime ricadute dei dazi sulla massa dei consumatori a basso reddito, la massa degli operai. Il dato medio del +2,4% di maggio, diventa +2,7% a giugno, segnalando un consistente aumento mensile, e il più alto valore da febbraio, che verrà confermato nel mese di luglio. In questi sei mesi, quelle di Trump non sono state solo minacce a vuoto, o per alzare la posta, da palazzinaro che pensa di trattare con il resto del mondo come fosse in un suq. Tra metti, togli e rimetti tariffe doganali, viene stimato che alle merci che entrano negli Stati Uniti da gennaio vengono mediamente applicati dazi del 20%, erano del 2,2% prima di Trump e sono il massimo da un secolo. Bisogna tornare al 1934 (altra data storica dal macabro significato, 5 anni prima dello scoppio della II guerra mondiale) per ritrovare gli stessi valori. E questo ha portato all’inevitabile aumento dei prezzi finali su “… un ventaglio di prodotti particolarmente sensibili a rincari scatenati dalla guerra commerciale: dai mobili, al centro di rincari mensili dell’1% rispetto al precedente 0,3%, agli elettrodomestici, saliti dell’1,9%; dall’abbigliamento, lievitato dello 0,4% interrompendo mesi di flessioni, ai giocattoli, con rialzi che hanno sfiorato il 2 per cento. In aumento dell’1% la benzina e dello 0,3% i generi alimentari. Significative anche le pressioni sugli affitti” (Sole 24 ore del 16/7/25). Quello sugli affitti e in generale l’aumento dei costi per l’alloggio è un altro degli effetti dei dazi, legato agli alti tassi di interesse che salgono negli USA per l’aumento del rischio sui capitali che finanziano l’enorme debito americano.
Tra Trump e il governatore della banca centrale americana, Jerome Powell, è in atto un conflitto mai visto tra poteri, con Trump che non perde occasione di letteralmente insultare il presidente della Fed e ne vorrebbe le dimissioni. Powell, secondo Trump, non abbassando i tassi gli starebbe remando contro nella politica economica da lui intrapresa per la grande America. Peserebbe sui redditi degli americani per i mutui sulle case (e di conseguenza sugli affitti), sul bilancio statale per gli interessi che il governo deve pagare per finanziare il debito pubblico, sulle imprese che devono accedere al credito.
Anche in questa vicenda stiamo assistendo a cose inedite negli USA, che fanno venire in mente altri paesi come la Turchia in cui il conflitto tra governo e banca centrale aveva scardinato ogni teoria economica della borghesia. Un Trump spregiudicato che mette in discussione l’indipendenza della banca centrale dal governo e promette che a breve ne prenderà il controllo con nuove nomine nel board e poi nella sua presidenza per far abbassare i tassi di interesse in un momento di aumento dell’inflazione. Un presidente della Fed che resiste agli attacchi e cerca di controllare l’inflazione in aumento per salvaguardare il capitale denaro delle grandi banche dalla svalutazione della moneta sia per il generale aumento dei prezzi delle merci legato ai dazi che ai movimenti dei capitali nel rapporto con le altre monete, con l’euro in particolare.
ANCHE SUL FRONTE DELLA CINA CHI PAGA PER LA GUERRA DEI DAZI SONO GLI OPERAI
Alcune considerazioni a margine vanno infine fatte anche sugli effetti della guerra dei dazi sull’altro fronte, e avendo ampiamente parlato della guerra dei dazi USA/Cina significa vedere le conseguenze sugli operai in Cina. Poiché, a fronte delle risposte che i politici cinesi hanno dato all’amministrazione americana, delle mosse intraprese e preparate da mesi, pur risultando finora gli unici che hanno saputo reggere lo scontro con Trump, non è che le ricadute dei dazi non ci siano state anche nella seconda potenza capitalistica mondiale. Nelle guerre, e quelle economiche non fanno eccezione, sono gli operai e la povera gente di tutti i paesi coinvolti a pagarne per primi e più pesantemente le conseguenze, nelle altre classi si assiste spesso, invece, a casi di spregiudicati e odiosi arricchimenti.
E anche in Cina le conseguenze dei dazi americani le hanno pagate gli operai, in primis quelli impiegati nella produzione di merci per il mercato americano che si sono trovati da un giorno all’altro senza lavoro (e corrispondente salario), e successivamente quelli impiegati nel commercio con l’estero e nella logistica. Si pensi alle ripercussioni nella cantieristica mercantile, in cui la Cina da anni è diventata protagonista, superando Giappone e Sud Corea, quando tra marzo e aprile i trasporti marittimi si sono quasi interrotti. Oppure si pensi ai minatori occupati nella estrazione delle “terre rare” usate dal governo cinese di Xi Jimping per “affamare” le industrie americane.
Nonostante l’intervento dello stato a sostegno dei padroni coinvolti, vuoi con l’allargamento delle maglie creditizie per evitarne i fallimenti, vuoi con il credito al consumo nel tentativo di sostenere il mercato nazionale, è tuttavia certo che la sostituzione del mercato americano per i capitalisti cinesi non è cosa che può risolversi da un giorno all’altro, e neanche mesi.
LA GUERRA DEI DAZI TRAVOLGERA GLI STESSI CHE L’ HANNO PROVOCATA
L’intera vicenda dei dazi di Trump ridisegna prepotentemente i mercati internazionali, ma nel tentativo di proteggerne alcuni, il proprio, a scapito degli altri, in una visione di nazionalismo economico dai risvolti pericolosi, l’unica cosa certa, e che si sta verificando, è che provoca il rallentamento se non addirittura l’arresto della crescita complessiva di cui il capitale ha assolutamente bisogno per la sua sopravvivenza.
R.P.
Comments Closed