CON GLI OPERAI DI GENOVA NON SI SCHERZA

Qui non valgono giri di parole, promesse, solidarietà politica di facciata e tanto meno la polizia in assetto antisommossa. Qui conta solo un obiettivo chiaro il piano di chiusura o ridimensionamento degli stabilimenti deve essere ritirato, qui conta la forza e gli operai la stanno mettendo in campo. Al governo la scelta.

Qui non valgono giri di parole, promesse, solidarietà politica di facciata e tanto meno la polizia in assetto antisommossa. Qui conta solo un obiettivo chiaro il piano di chiusura o ridimensionamento degli stabilimenti deve essere ritirato, qui conta la forza e gli operai la stanno mettendo in campo. Al governo la scelta.

Lo avevano detto, lo hanno fatto. Alcune migliaia di operai di Genova, dipendenti delle principali fabbriche del capoluogo ligure, da Ansaldo Energia a Piaggio Aerospace, da Fincantieri ad altre industrie, sono scesi in strada per aderire alla mobilitazione in appoggio agli operai dell’ex Ilva di Cornigliano e Novi Ligure. Il pericolo della perdita del posto di lavoro e del salario è concreto per gli operai siderurgici, nello stabilimento genovese il malcontento cresce, gli animi si riscaldano, le voci si alzano. I dirigenti sindacali non possono fare a meno di gestire questa situazione. Certo, parlano a nome degli operai al solito modo loro, ad esempio Michele De Palma, segretario generale della Fiom Cgil, sostiene che “scioperiamo per difendere la dignità del lavoro”. Ma agli operai che si sporcano le mani per produrre l’acciaio non importa nulla della supposta dignità del lavoro invocata da De Palma, che le mani di sicuro non se le sporca, quello che per loro conta è il posto di lavoro che assicura il salario necessario per vivere e mantenere una famiglia. Anche se lo striscione che apriva il corteo riportava che “Genova lotta per l’industria”, uno slogan tipico dell’interclassismo sindacalista, ogni operaio, in cuor proprio, lotta non per la salvaguardia dell’industria fine a se stessa ma per garantire il posto di lavoro per sé e i propri compagni di lotta.

Appena gli operai prendono con decisione la strada della lotta e affermano con chiarezza la forza e l’indipendenza dei propri obiettivi, emerge evidente come i loro obiettivi siano diversi, e contrapposti, da quelli di governanti e presunti “compagni di strada”. Genova lo dimostra in pieno.

Che operai manifestino per mantenere il posto di lavoro dovrebbe essere un’azione meritoria per il governo Meloni che ha fatto dell’“impegno per la piena occupazione” uno dei suoi cavalli di battaglia! Ma questo, che sbandiera ogni giorno come proprio grande merito un milione di nuovi occupati, non ha esitato a mandare la polizia contro gli operai di Genova che sono scesi uniti in piazza in lotta per non perdere il posto di lavoro e il salario. Meloni e la sua compagine politica nascondono che hanno ottenuto un relativo aumento dell’occupazione costringendo chi prima sopravviveva in qualche modo con il reddito di cittadinanza a lavori precari, provvisori, fatti di contratti a tempo determinato, periodici, stagionali e di salari poveri, miseri, perciò quando gli operai genovesi manifestano per difendere il posto di lavoro non si fa scrupolo di mandargli contro i poliziotti a tirare lacrimogeni e a picchiare con i manganelli.

Al presidio davanti alla prefettura è giunta la sindaca Silvia Salis, che in mattinata, dopo avere ribadito “la vicinanza ai lavoratori”, aveva fatto appello a non usare la violenza (in ciò accompagnata dall’arcivescovo di Genova, Marco Tasca, che aveva invitato gli operai “a protestare pacificamente”). E poi con un giro di parole ha promesso che “domani incontrerò il ministro Urso e gli chiederò quello che gli ho chiesto l’ultima volta su cui non ho avuto risposta, cioè che cosa succede se non c’è l’offerta privata. In base alle risposte che avremo domani ve le dirò e prenderemo le decisioni”. In realtà le risposte Urso le ha date: l’altro ieri alla Camera ha annunciato che “non ci sarà nessun piano di chiusura di Acciaierie d’Italia” e ha ribadito che “a Genova nessuno andrà in cassa integrazione, con salario integralmente corrisposto”. E le stesse risposte ripeterà alla Salis. Ma gli operai giustamente non si fidano delle parole pronunciate per l’occasione. Non era stato proprio Urso qualche settimana fa, presentando il piano governativo di cassa integrazione per 6000 dipendenti, a dire che esso riguardava anche le fabbriche genovesi? E come Salis sostiene che nell’ex Ilva “il governo deve entrarci, perché senza una presenza pubblica la prospettiva è la chiusura”, così i sindacati, malgrado le parole grosse d’occasione per uno sciopero e un corteo arrabbiato, continuano a premere per una sua nazionalizzazione che non risolverebbe comunque i problemi dell’occupazione operaia e la fine della cassa integrazione. Una soluzione che illude gli operai che lo stato padrone diretto dalla gente alla Urso dia qualche garanzia. Per il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ad esempio, “un intervento diretto dello Stato è necessario per garantire la produzione di acciaio senza inquinare e per non perdere il futuro industriale del paese”.

Alla chiacchiera meloniana sulla piena occupazione e al guazzabuglio distorsivo operato da sindacalisti e politici di sinistra gli operai hanno risposto a Genova ribadendo con forza, chiarezza e senza mediazioni i propri interessi: posto di lavoro e salario. Non spetta agli operai risolvere nell’ambito del sistema capitalista le contraddizioni e le conseguenze del suo modo di produzione , trovino altri le soluzioni, se ci riescono. Per gli operai le parole d’ordine per cui lottare sono quelle emerse nel capoluogo ligure: unità fra gli operai dell’ex Ilva e con gli operai di altre fabbriche, posto di lavoro nelle fabbriche assicurato per tutti gli operai, salario pieno garantito per tutti gli operai.
L.R.

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