VIVA LA RESISTENZA DEL POPOLO PALESTINESE

Per quanto oscurata e criminalizzata la lotta di liberazione a Gaza e in Cisgiordania è attiva e si rafforza. Perciò le piazze che manifestano contro lo sterminio perpetuato dal governo Netanyahu hanno un compito centrale: il sostegno aperto, dichiarato alla resistenza palestinese.

Per quanto oscurata e criminalizzata la lotta di liberazione a Gaza e in Cisgiordania è attiva e si rafforza. Perciò le piazze che manifestano contro lo sterminio perpetuato dal governo Netanyahu hanno un compito centrale: il sostegno aperto, dichiarato alla resistenza palestinese.

Nelle manifestazioni di piazza contro il genocidio del popolo palestinese perpetrato impunemente da due anni dall’attuale governo israeliano di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu numerosi sono gli slogan, scritti su striscioni e cartelli o gridati collettivamente. Sono sostanzialmente riassumibili (con qualche esempio diretto) in:
– frasi di denuncia e condanna del genocidio in atto (Stop al genocidio, Fermiamo il genocidio);
– formule di esecrazione, rabbia e odio dirette contro il primo ministro israeliano;
– auspici di una Gaza libera dall’oppressione israeliana, autonoma e indipendente (Free Palestine, Palestina libera, Gaza libera);
– motti contro l’attendismo, l’opportunismo, l’indifferenza, la conclamata complicità del governo Meloni con il governo Netanyahu e il sostanziale appoggio alla sua attività criminale nella Striscia di Gaza;
– appelli umanitari (Ogni bambino è come un figlio, ecc.);
– frasi di sostegno incondizionato alla missione della Global Sumud Flotilla;
– parole d’ordine contro la guerra e l’aumento delle spese militari a danno delle spese per il benessere sociale (Soldi alla scuola non alla guerra);
– richieste di sospensione immediata di accordi commerciali, istituzionali e culturali con Israele (Basta armi e soldi a Israele);
– inviti ad ampliare e radicalizzare la protesta interna (Blocchiamo tutto, Blocchiamo tutto con la Palestina nel cuore, Se non cambierà Intifada pure qua);
– sollecitazioni (illusorie!) a importanti figure esterne a intervenire subito (come quella di Medici senza frontiere: I medici non possono fermare il genocidio, i leader mondiali sì).

Slogan più o meno simili si leggono e si ascoltano nelle manifestazioni che stanno dilagando in tutto il mondo. Uno fra quelli più urlati è certamente “From the river (Jordan) to the sea, Palestine will be free” (“Dal fiume (Giordano) al mare, la Palestina sarà libera”). Così come nei mesi scorsi, e ancora oggi, lo slogan “All eyes on Rafah” (“Tutti gli occhi su Rafah”), chiedendo di prestare attenzione agli attacchi israeliani contro la città di Rafah, dove si era rifugiato oltre un milione di persone, rappresentava un appello globale all’azione, a farsi testimoni di ciò che stava accadendo.

Mancano, tuttavia, pressoché del tutto, slogan a favore della resistenza palestinese, parole d’ordine di appoggio e incitamento a essa. È il caso di chiedersene la ragione. Forse non esiste nei fatti una resistenza palestinese? O forse si pensa che non esiste una resistenza palestinese? O ancora, pur esistendo, non le si dà l’importanza che merita? O, piuttosto, si ha in qualche modo paura o ritrosia di mostrare simpatia o di offrire un sostegno implicito a combattenti come le Brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas che nel 2023 annoverava circa 20.000 miliziani, visto che esse sono comprese nella lista delle organizzazioni cosiddette terroristiche stilata da Unione europea, Regno Unito, Israele, Stati Uniti e Australia? Probabilmente tutte queste risposte messe insieme, ciascuna per la sua, più o meno importante, parte. Tutte le borghesie (e, quindi, tutti i loro stati) che in varie forme appoggiano e legittimano, oggi come in passato, la condotta imperialistica e colonialistica dello stato di Israele e dei suoi governi contro il popolo palestinese e altri popoli vicini hanno sempre oscurato, ostacolato, criminalizzato e combattuto ogni forma di resistenza, a maggior ragione se armata, del popolo palestinese, definendola e liquidandola come terrorista. Hanno sempre fatto così gli imperialismi contro chi dal basso resisteva loro, da quello romano che massacrava ogni popolo che si rivoltava contro Roma imperiale a quelli più moderni. Anche i partigiani italiani venivano dispregiativamente qualificati come terroristi dai nazisti tedeschi e dai fascisti italiani. Anche nel Vietnam occupato dai marines americani i Vietcong, i resistenti armati contro il regime filostatunitense del Vietnam del Sud, erano chiamati e denigrati quali terroristi. Anche i combattenti irlandesi che nei primi decenni del 1900 si opponevano all’occupazione dell’Irlanda da parte dell’imperialismo inglese venivano denominati terroristi. Anche i sudafricani che hanno lottato per decenni contro il regime di discriminazione e segregazione razziale imposto dal regime di Pretoria venivano imprigionati e ammazzati come terroristi. Anche i talebani che si sono opposti all’occupazione del loro paese da parte dell’Urss sono stati inevitabilmente appellati terroristi e naturalmente massacrati dagli assassini della superpotenza socialimperialista. Eppure tutti questi resistenti, pur con le loro contraddizioni interne, hanno sempre costituito oggettivamente un passo avanti nella lotta mondiale contro gli imperialismi e i loro colonialismi.

Anche se non esistesse una resistenza palestinese, sotto alcuna forma, pacifica e/o armata, le piazze mobilitate per la liberazione e per la libertà della Palestina dovrebbero comunque incitare alla nascita e allo sviluppo di un movimento interno di resistenza. Posto, invece, che tale movimento interno di resistenza armata esiste, nelle forme in cui a esso è possibile oggi manifestarsi, per chi scende in piazza contro il genocidio è imperativo appoggiarlo. Finché esisterà l’occupazione del proprio territorio, il popolo palestinese ha diritto a resistere in armi contro la potenza occupante e contro le sue forze armate. Spetta al popolo palestinese definire al proprio interno le forme possibili e adeguate di resistenza, anche armata. Spetta al popolo palestinese risolvere le contraddizioni interne e darsi la rappresentanza politica e armata che vuole e vorrà. Nessuno dall’esterno può dettargli legge sulle forme della sua autodeterminazione. Un movimento interno palestinese di resistenza armata è un enorme fattore positivo di lotta contro l’imperialismo israeliano, statunitense e di qualsiasi altra potenza appoggi nei fatti il genocidio. È compito dei movimenti di lotta negli altri paesi appoggiare la resistenza palestinese, in qualsiasi forma si manifesti, contro l’imperialismo e il colonialismo di Israele, degli Stati Uniti e dei loro alleati. Anche perché la sconfitta di questi ne indebolirebbe la forza antipopolare nello scontro di classe nei rispettivi paesi.
L.R.

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