Governo nazionale, enti locali e sindacati stanno decidendo come salvare lo stabilimento siderurgico di Taranto al prezzo della cassa integrazione per 4000 dipendenti. Poi lo venderanno al miglior offerente, che si incaricherà di completare l’opera con i licenziamenti. Gli operai sono disposti ad assistere al proprio sacrificio come inermi spettatori o metteranno in campo tutta la forza necessaria per non farsi mandare al macello?
Quattro scenari produttivi per una decarbonizzazione frazionata dal 2026 fino addirittura al 2039, produzione costante su un livello di 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno prima con gli attuali altiforni e poi con i nuovi forni elettrici, nave di rigassificazione e impianto di desalinizzazione galleggiante nel porto. È quanto prevede la bozza dell’accordo di programma messa a punto dal governo Meloni per la transizione ecologica dell’impianto siderurgico dell’ex Ilva di Taranto e presentata dal ministro Urso a enti locali e sindacati. Per il governo l’approvazione veloce dell’accordo di programma è indispensabile sia per evitare il fallimento della vendita dell’ex Ilva sia per ottenere il rinnovo dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) ed evitare la chiusura dello stabilimento: questa è infatti minacciata dalla prossima sentenza del Tribunale di Milano, chiamato a decidere su un ricorso presentato da un gruppo di cittadini contro l’ex Ilva, “per pericoli gravi per l’ambiente e la salute umana”, e quindi legato proprio all’Aia. Perciò Urso ha minacciato che “se entro luglio non ci sono accordo di programma e Aia, non parleremo solo di 4000 in cassa integrazione ma della chiusura dell’Ilva a causa della sentenza del Tribunale di Milano”. A dire il vero il Tribunale avrebbe dovuto esprimersi da un anno e finora non l’ha fatto, prende tempo, ma il governo ha fatto finta di ricordarsene solo adesso e ha messo sotto pressione Regione Puglia, Provincia di Taranto e Comuni di Taranto e Statte affinché firmino un’intesa che è propedeutica per liberarsi della patata bollente della gestione dell’ex Ilva e scaricarla su qualche volenteroso compratore, a iniziare dall’unico oggi formalmente in campo, Baku Steel. Dopo diverse titubanze e rinvii enti locali e sindacati hanno espresso disponibilità, in cambio di promesse di aggiustamenti formali, a firmare l’accordo. Un accordo che di fatto conserva l’area a caldo e ne dilata in 14 anni i tempi di chiusura, mantenendo le condizioni per la continuità dell’inquinamento ambientale dentro e fuori la fabbrica, fa strame dell’opposizione di ambientalisti alla nave di rigassificazione e all’impianto di desalinizzazione e, soprattutto, conclama la cassa integrazione immediata per oltre 4000 lavoratori, quasi tutti operai.
GLI SCENARI E LE MISURE “ACCESSORIE”
La bozza di accordo prevede quattro scenari produttivi e misure “accessorie” che di fatto procrastinano la chiusura dell’area a caldo, conservando l’inquinamento che questa produce, e mette le basi per nuove forme di inquinamento. Infatti i quattro scenari prevedono il passaggio progressivo dall’attuale ciclo integrale altamente inquinante, con fermata graduale di tre altiforni alimentati a carbone, all’introduzione scalare di tre forni elettrici ad arco, che produrranno acciaio fondendo materiali ferrosi, principalmente rottame, i quali però non sono privi di impatto ambientale. Nello scenario 0 (2025-2026) rimarrà il ciclo integrale. Nello scenario 1 (2026-2030) verrà introdotto il primo forno elettrico, contestualmente alla graduale fermata di un altoforno. Nello scenario 2 (2030-2034) sarà introdotto un secondo forno elettrico e verrà progressivamente fermato un secondo altoforno. Il terzo scenario (2034-2039) vedrà la fermata dell’ultimo altoforno e l’introduzione del terzo forno elettrico.
La bozza di accordo sostiene, poi, che il processo di decarbonizzazione degli impianti di Taranto richiederà ingenti quantitativi di gas naturale sia per la produzione dell’energia elettrica necessaria a soddisfare l’aumentato fabbisogno, sia per la produzione del preridotto (una forma di ferro metallico ottenuto dalla riduzione del minerale di ferro a temperature inferiori a quelle dell’altoforno, senza fusione) che alimenterà i forni elettrici. Perciò prevede l’installazione nel porto di Taranto di una unità galleggiante di stoccaggio e rigassificazione, della portata lorda di 70mila tonnellate e 275 metri di lunghezza, che avrà la capacità annua di rigassificare circa 1 miliardo di metri cubi, opererà dal molo polisettoriale del porto di Taranto e sarà collegata agli impianti siderurgici attraverso un nuovo gasdotto lungo circa 9 km. Inoltre la bozza di accordo include un impianto galleggiante di desalinizzazione per le necessità della fabbrica con una capacità produttiva di 110 mila metri cubi al giorno, costituito da una piattaforma galleggiante attrezzata con impianti per desalinizzare l’acqua di mare e una condotta idrica lunga circa 9 km per l’allacciamento alla rete per la fornitura di energia al sistema di desalinizzazione.
L’APPOGGIO “COSTRUTTIVO” DI ENTI LOCALI E SINDACATI
Che la soluzione proposta dall’accordo di programma sia la più pratica, immediata e conveniente, non solo per l’attuale governo ma per l’intera classe dirigente locale e nazionale, per rendere l’ex Ilva facilmente vendibile lo si comprende dall’appoggio a esso dato dalle figure istituzionali del centro-sinistra (che guida la Regione Puglia, la Provincia di Taranto e i Comuni di Taranto e Statte). Per tutti ha parlato il presidente della Regione Michele Emiliano, a margine della riunione tenuta a Bari con istituzioni, parti sociali e associazioni interessate per discutere le proposte del governo, con un “sì all’accordo ma con nostre condizioni”. “Tutti gli enti locali coinvolti si sono dichiarati favorevoli alla firma dell’accordo di programma, con la condizione che siano garantite le prerogative della comunità locale. Sul tema del rigassificatore, ad esempio, sarà necessario discutere in modo approfondito sia sull’opportunità dell’opera, sia sulla sua collocazione, per assicurare i più alti standard di sicurezza ed evitare qualsiasi rischio di incidente rilevante”. “Anche per quanto riguarda l’impianto di desalinizzazione non è affatto scontato che la salamoia debba essere riversata in mare. È possibile pensare a soluzioni alternative: stoccaggio, riutilizzo o persino valorizzazione attraverso attività economiche collaterali”. Dopo aver rivendicato questi aggiustamenti di facciata e prospettato l’eventualità di una nazionalizzazione temporanea dell’ex Ilva, in attesa della vendita, Emiliano ha candidamente concluso che “è necessario prevedere strumenti efficaci per la gestione degli esuberi, in modo da evitare qualsiasi contraccolpo occupazionale”.
I sindacati hanno apprezzato le osservazioni di Emiliano e ritenuto positiva la disponibilità degli enti locali a discutere dei contenuti dell’accordo di programma. La Fiom Cgil di Taranto ha garantito un appoggio costruttivo, volto al confronto e alla discussione e alla ricerca delle soluzioni più idonee. Aggiungendo che, in prospettiva della vendita dell’ex Ilva, “necessariamente lo Stato deve intervenire, con garanzie finanziarie e gestionali, perché unico in grado di garantire il risanamento ambientale, la transizione ecologica e la questione occupazionale”. Anche l’Usb ha evidenziato la necessità di sviluppi che vadano dalla definizione di un accordo di programma alla nazionalizzazione della fabbrica e ha chiesto “senza mezzi termini di accompagnare l’eventuale accordo di programma con tutta una serie di provvedimenti, da una legge speciale al riconoscimento del lavoro usurante, alla reintroduzione della ex mobilità o all’allungamento della Naspi (indennità mensile di disoccupazione) a 4 anni, l’incentivo all’esodo volontario e un accordo governo/Regione Puglia per circa 1000 assunzioni delle maestranze dell’ex Ilva da collocare all’interno di Acquedotto, Sanità Service e Arsenale Marina Militare, tutte realtà in forte sottorganico”. Insomma, Emiliano detta la linea, enti locali e sindacati individuano le vie per realizzarla. Una cosa è chiara: firmato l’accordo di programma partirà la cassa integrazione per metà dei dipendenti dello stabilimento di Taranto; poi, a vendita avvenuta, il nuovo padrone provvederà a trasformare gli esuberi in esodi volontari e licenziamenti. La strada è stata tracciata da governo, enti locali e sindacati, ma gli operai che cosa ne pensano? Accetteranno di andare come pecore al macello individuale e collettivo oppure capiranno che è arrivato il tempo di opporsi con decisione a un’alleanza istituzionale che punta a salvare a loro spese quel che resta dell’ex Ilva?
L. R.
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