Ogni sciopero serve, se è ben organizzato, per mettere in campo la forza operaia, ma anche per fare un bilancio collettivo delle linee sindacali che nella storia dell’ex Ilva ci hanno portato a digerire qualunque scelta dei padroni. Lo sciopero del 16 ottobre, se lo prendono in mano gli operai, può servire per cambiare strada
“È il momento di scelte chiare: il Governo deve assumere la guida dell’ex Ilva con un forte intervento pubblico che guidi la transizione ecologica e il rilancio di un’azienda ormai al collasso“. Si conclude così il verbale del consiglio di fabbrica delle Rsu di Fim, Fiom e Uilm dello stabilimento ex Ilva di Taranto e di tutte le categorie dell’appalto di Cgil, Cisl e Uil, consiglio indetto per organizzare lo sciopero nazionale del 16 ottobre in risposta all’offerta del fondo di investimento statunitense Bedrock Industries per l’acquisizione dell’ex Ilva, che prevede solo 2.000 occupati a Taranto e circa 1.000 negli altri stabilimenti. Mettendosi in ginocchio e deponendo ogni finzione di lotta di classe, la triade sindacale delega il governo Meloni a dare risposte alle migliaia di operai che temono di finire in mezzo a una strada.
A Fim, Fiom e Uilm fa da spalla l’Usb che, attraverso la voce di Francesco Rizzo e Sasha Colautti dell’Esecutivo Confederale, proclama: “Basta con questa farsa della vendita. Si proceda subito alla nazionalizzazione“.
Da questi propositi emerge con lampante chiarezza che lo sciopero del 16 ottobre non è stato indetto da Fim, Fiom e Uilm per mostrare al governo Meloni, agli attuali commissari e ai futuri padroni la forza operaia e il suo peso nel determinare il futuro occupazionale dell’ex Ilva e delle sue fabbriche, a partire da quella con il maggior numero di operai, lo stabilimento siderurgico di Taranto. No, lo hanno proclamato, rispondendo alla pressione operaia dal basso, per supplicare il governo di assumere una gestione paternalistica dell’ex Ilva, supportata da adeguati finanziamenti per renderla operativa e attiva e mantenere l’attuale livello di occupazione.
Genuflessi, i tre sindacati nel medesimo verbale assicurano, a scanso di equivoci, che “la mobilitazione non vuole in alcun modo essere contro qualcuno, ma, al contrario, vuole cercare di unire e chiedere partecipazione e sostegno a tutte le istituzioni per agire con responsabilità immediata, al fine di dare risposte a migliaia di famiglie della nostra comunità”. E aggiungono l’impegno che “nei prossimi giorni invieremo formale invito a tutte le istituzioni locali e regionali, alle associazioni dei commercianti, a partecipare alla mobilitazione di Fim, Fiom e Uilm“. I preparativi per una manifestazione camuffata da operaia, ma che in realtà vuole essere una scodinzolante processione interclassista dallo stabilimento al palazzo di città, ci stanno tutti.
Preoccupati del futuro non di migliaia di operai ma dell’impresa ex Ilva, e quindi della produzione dell’acciaio in Italia, gli organizzatori dello sciopero vogliono “rivendicare un reale cambiamento sul presente e sul futuro dell’ex Ilva, che inevitabilmente non può coincidere con quanto sta emergendo a mezzo stampa riguardo i contenuti delle offerte presentate per l’acquisto dell’ex Ilva“. Nella sostanza reiterano vecchie illusioni antioperaie sullo Stato paternalista, buono e comprensivo, capace di salvare produzione, lavoro e occupazione! Purtroppo non c’è più cieco di chi non vuole vedere: l’attuale gestione commissariale non ha avuto remore ad aumentare il numero dei cassintegrati da 3.500 a 4.450 senza interpellare i sindacati! Fim, Fiom e Uilm, sempre nel verbale, lamentano che è stata una “procedura di cassa integrazione straordinaria esperita in assenza delle organizzazioni sindacali, che segna di fatto una evidente mancanza di coordinamento anche all’interno di Palazzo Chigi tra il Ministero del Lavoro e il Mimit su come traguardare il futuro di un sito strategico per il nostro Paese“! E, preoccupandosi di dare consigli di politica economica al governo, aggiungono: “Riteniamo inaccettabile il silenzio di Palazzo Chigi, che, a fronte della richiesta di incontro più volte reiterata degli scriventi, non convoca ancora un tavolo sulla chiusura del bando e le offerte pervenute e che dimostra come l’accelerazione sull’avvio della procedura di gara, in assenza del compimento del piano di ripartenza presentato dalla gestione commissariale, sia stata del tutto sbagliata“. Infine, memori di aver contribuito a buttare in strada molti operai con l’accordo del 2018 che aprì la strada ad Arcelor Mittal, alzano la voce per cercare di salvare la faccia: “Ad oggi, oltre ai proclami, non ci sono risposte né sul piano ambientale né su quello occupazionale; quanto sta emergendo rispetto alle offerte vincolanti si prefigura una macelleria sociale, poiché oltre ai 7.000 esuberi dell’intero gruppo di Acciaierie d’Italia dovrebbero aumentare i 1.600 lavoratori di Ilva in amministrazione straordinaria, che per Fim, Fiom e Uilm sono sempre stati all’interno del bacino occupazionale attraverso la clausola di salvaguardia occupazionale del 6 settembre 2018, e migliaia di lavoratori dell’appalto, che da sempre rappresentano la platea più esposta“.
L’Usb, al di là delle grosse parole di routine, non si discosta dalle posizioni espresse da Fim, Fiom e Uil. Rizzo e Colautti così spiegano la sua posizione: “La vendita dell’ex Ilva è ormai diventata una farsa alla quale bisogna mettere fine. Questa storia non può e non deve concludersi con l’ennesimo e definitivo sacrificio dei lavoratori. Certamente inaccettabile la proposta di Bedrock che comporterebbe il taglio di ben 7000 unità lavorative, avendo dichiarato alla stampa di aver bisogno di soli 3000 lavoratori, di cui 2000 impegnati nello stabilimento di Taranto. Si tratta di una partita tutta in perdita: dovremmo accettare di cedere la fabbrica a 2 euro, garantire un finanziamento di 700 milioni per la decarbonizzazione, al quale faranno seguito sicuramente altri versamenti di risorse pubbliche, e infine un numero enorme di esuberi, che, tradotti in termini pratici, significano disordini sociali oltreché depressione economica con un effetto domino preoccupante“. E questa è la soluzione dell’Usb, simile a quella illusoria dello stato paternalista invocato dalla triade sindacale: “È invece sempre più evidente che, nonostante le esternazioni del Governo, la soluzione più ragionevole è la nazionalizzazione, e quindi l’impegno pieno e a questo punto esclusivo da parte dello Stato, che è chiamato a dare risposte con una gestione diretta della fabbrica e con la messa in sicurezza di tutti i posti di lavoro. Rifiutiamo nettamente l’ipotesi di esuberi. È tempo per il Governo Meloni, di fare scelte coraggiose e restituire serenità a 18mila lavoratori (diretti, appalto e Ilva in amministrazione straordinaria) e relative famiglie“.
Fim, Fiom, Uilm e Usb, abdicando a un reale impegno per spingere gli operai a lottare per mantenere il posto di lavoro, ne stanno preparando di fatto i licenziamenti, mascherati o meno con la cassa integrazione e/o altri ammortizzatori sociali. Spetta agli operai organizzarsi per difendere i propri interessi, a cominciare da uno sciopero, il 16 ottobre, realmente combattivo e andando oltre esso. Agli operai non interessano le sorti dell’impresa ex Ilva e di ogni sua singola fabbrica. INTERESSANO LE SORTI DELLA LORO FORZA LAVORO, DEI LORO SALARI E DELLE CONDIZIONI DI LAVORO. Sembra che difendere l’impresa sia la stessa cosa che difendere loro stessi ma è un abbaglio. Difendere l’impresa è difendere e garantire i profitti degli azionisti, difendersi come operai apre tutt’altra prospettiva. Se cadono nel tranello di impegnarsi nelle sorti dell’impresa, saranno destinati e costretti a compromettersi e a fare la propria parte, accettando cassa e licenziamenti. Con la forza esplosiva del proprio numero migliaia di operai possono invece mettere in guardia governo, commissari e futuri padroni che nulla potranno combinare sulla loro pelle. Al far sentire con forza il proprio peso per gli operai non c’è alternativa.
L.R.
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