IL GOVERNO DELLE BANDIERINE

La propaganda del governo non riesce a nascondere la verità dei fatti. La vantata “crescita” dell’occupazione è fatta di salari bassi e orari e carichi di lavoro insostenibili.

La propaganda del governo non riesce a nascondere la verità dei fatti. La vantata “crescita” dell’occupazione è fatta di salari bassi e orari e carichi di lavoro insostenibili.

La presidente Meloni sbandiera ogni giorno come grande merito della sua compagine governativa un milione di nuovi occupati. Lo reclama come una vittoria sui nullafacenti seduti sul divano che approfittavano e godevano dei sussidi di stato a volontà. Che questa narrazione sia volutamente falsa lo smentisce, numeri alla mano, anche una Relazione del suo stesso governo!

Agitare le bandierine dei “magnifici risultati raggiunti” per accalappiare l’attenzione e il plauso dei creduloni e farne base di consenso elettorale. Il governo Meloni è maestro nell’arte di contrabbandare misure e manovre antipopolari come vantaggiose per operai, proletari, disoccupati. Ad esempio, non c’è giorno od occasione che la presidente del consiglio non utilizzi per rivendicare grandi successi nel campo dell’occupazione. La promessa di Berlusconi, un milione di nuovi occupati, che era reiterato cavallo di battaglia delle sue campagne elettorali, Meloni si vanta di averla trasformata in realtà, presentando il suo come il “governo del fare”. Lo fa sempre, guarda caso, in situazioni in cui non esiste contraddittorio, in interviste compiacenti o in casa di “amici”. Al recente congresso della Cisl, sindacato che è un’autentica quinta colonna padronale tra le fila degli operai e degli altri lavoratori dipendenti, ha sostenuto che “in ognuno dei mille giorni del mio governo sono sorti mille nuovi posti di lavoro e, quindi, oggi, rispetto a settembre del 2022, ci sono in Italia un milione di nuovi occupati”. Una grande smania di applausi e sorrisi dei sodali di Meloni e del suo governo accompagna, come un potente e festoso suono di fanfare, questi annunci maestosi, che sembrano dire: “Noi siamo il governo dei fatti, non delle parole”. Come se i nuovi occupati fossero il frutto di chissà quale solerte e felice programma economico governativo! I creduloni ci cascano, appoggiano, votano. Chi, invece, va a scrostare la chiacchiera meloniana scopre che il milione di nuovi posti di lavoro è un risultato ottenuto costringendo a lavori precari chi prima sopravviveva in qualche modo con il reddito di cittadinanza, che questo milione di nuovi occupati si arrangia con lavori instabili, incerti, provvisori, fatti di contratti a tempo determinato, periodici, stagionali e di salari poveri, miseri.

Meloni e la sua consorteria partitica hanno fatto della battaglia contro il reddito di cittadinanza e contro il salario minimo garantito due pilastri della campagna elettorale pregovernativa, in favore di quella media borghesia, padroni e padroncini sempre alla ricerca di quella forza-lavoro ricattabile da pagare al di sotto del suo valore. Una volta insediatisi come governo l’hanno trasformata in guerra economica reale, non dichiarata, contro gli operai contrattualmente più instabili, i precari di ogni sorta, i disoccupati. Hanno mantenuto la promessa, fatta in primo luogo ai padroni delle campagne e dei servizi (dalla ristorazione privata ai gestori delle spiagge private) che prima lamentavano ripetutamente la mancanza di braccia disposte a lavorare nelle raccolte di frutta e verdura o a spazzare i lidi o a servire da camerieri, di mettere a loro disposizione tutti coloro che “approfittano del reddito di cittadinanza per non lavorare” o almeno la maggior parte possibile di essi. Il governo Meloni lo ha fatto battendo la grancassa dei “furbetti che speculano pur non avendo diritto al reddito di cittadinanza” e dei “lavativi che vivono alle spalle di chi lavora anche per loro”, ha agitato le acque del malcontento sociale non indirizzandolo, ovviamente, contro chi vive di ricche cedole e di elevati stipendi, di ricchezze accumulate sfruttando direttamente operai e proletari o sostenendo indirettamente in mille modi il loro sfruttamento, ma fomentando la guerra fra i poveri. E lo ha fatto pur sapendo bene che il reddito di cittadinanza aveva fornito a circa un milione di persone una sussistenza sociale in grado di alleggerire la rivolta di quei poveri. Quel milione che adesso è andato a ingrassare i padroni lamentosi che il reddito di cittadinanza li privava di braccia a buon mercato.

Sono i dati sulla distribuzione del reddito di cittadinanza negli anni dal 2019 al 2023 che dimostrano il suo effetto nel garantire la sopravvivenza reale di tanti disperati, smentendo la comoda narrazione meloniana. Dati che emergono dalla Relazione della Commissione povertà istituita presso il ministero del Lavoro dell’attuale governo e presieduta da Natale Forlani, ex segretario confederale nazionale della Cisl, attualmente presidente del Comitato scientifico per la valutazione delle misure di contrasto alla povertà e del reddito di cittadinanza e dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp). Secondo tale Relazione il reddito di cittadinanza ha aiutato 2,4 milioni di famiglie, cioè 5,3 milioni di persone, ad affrontare la pandemia da Covid-19 e a contrastare la povertà assoluta erogando e distribuendo loro 34 miliardi di euro fra aprile 2019 e dicembre 2023. Però solo un terzo dei beneficiari hanno percepito il sussidio per l’intero periodo citato (57 mesi), gli altri sono entrati e usciti dalla misura. Anzi la Relazione della Commissione povertà specifica che il reddito di cittadinanza ha raggiunto al massimo il 38% delle famiglie in povertà assoluta, un picco toccato nel 2021. L’anno dopo, il 2022, ha riguardato solo il 32% di tali famiglie, poco meno di un terzo.

La Relazione Forlani conferma, come peraltro aveva già definito l’Istat, che il reddito di cittadinanza ha permesso di uscire dalla povertà assoluta a 400mila famiglie nel 2020, 480mila nel 2021, 450mila nel 2022, per un totale di 900 mila persone nel 2020 e oltre un milione nel 2021 e nel 2022: lavoratori poveri o poverissimi che si caratterizzavano per l’elevata difficoltà di inserimento o reinserimento al lavoro e che integravano i magri guadagni con il reddito di cittadinanza. E precisa che “metà della spesa erogata nel biennio 2020-2021, circa 8,3 miliardi di euro, ha contribuito a ridurre dello 0,8% l’indice delle disuguaglianze e dell’1,8% il rischio di povertà”. Il reddito di cittadinanza non è stato quindi una risposta efficace alla povertà economica estrema, ma un debole tentativo di nasconderla parzialmente. La Relazione Forlani ha confermato questa debolezza, sottolineando peraltro che il sussidio ha penalizzato le famiglie numerose, gli stranieri, le coppie di anziani e soprattutto i lavoratori poveri, perché i limiti di patrimonio e di reddito imposti per accedervi erano troppo stringenti, cioè bassi. Eppure, nonostante tutti i limiti del reddito di cittadinanza, la Relazione Forlani ammette il suo ruolo fondamentale, “cruciale”, nell’uscita temporanea dalla povertà di centinaia di migliaia di famiglie italiane.

Tace completamente, però, la Relazione Forlani su come stanno andando i nuovi sussidi che hanno sostituito il reddito di cittadinanza dopo la sua eliminazione da parte del governo Meloni, cioè l’Assegno di inclusione (Adi, di importo inferiore al reddito di cittadinanza) e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl, l’assegno da 350 euro al mese per gli occupabili, con inasprimento delle sanzioni per chi rifiuta l’unica offerta di lavoro), per accedere ai quali vengono chiesti requisiti ancora più restrittivi. Si limita a “raccomandare” di indicizzare il tetto Isee dei 6mila euro per tenere contro dell’inflazione degli ultimi anni. Non dice che la stretta del governo Meloni, come peraltro certificato dalla Banca d’Italia, ha più che dimezzato la platea dei poveri beneficiari. Non dice che i sussidi sono più bassi e di durata inferiore rispetto a quelli erogati con il reddito di cittadinanza. Non dice che la povertà oggi è di gran lunga cresciuta rispetto a cinque e dieci anni fa, benché la pandemia sia passata. Non dice come vive attualmente quel milione di persone che ricevevano il reddito di cittadinanza e poi non lo hanno più percepito. Non dice che un milione di proletari oggi tirano a campare lavorando sfruttati nei campi e nei servizi con contratti precari e salari bassi. Questo milione corrisponde esattamente a quello che non percepisce più il reddito di cittadinanza? In gran parte sì, ma non è una corrispondenza meccanica. È costituito da flussi molto mobili di disoccupati/lavoratori in entrata e in uscita dal grande serbatoio della povertà italiana che li rende facilmente sostituibili e quindi ricattabili e perciò esposti a condizioni di lavoro penose e a salari bassi. Per tutti gli altri che cercano di mantenersi a galla nel bacino della povertà assoluta è addirittura peggio, la loro sussistenza è legata al lavoro nero, ancora più precario, all’aiuto delle famiglie allargate, in alcuni ambienti persino alla microcriminalità diffusa.

Insomma, i fatti smentiscono clamorosamente la narrazione meloniana dei nullafacenti seduti sul divano che approfittavano e godevano dei sussidi di stato a volontà. Che questa narrazione sia volutamente falsa lo chiarisce, numeri alla mano, anche una Relazione del suo stesso governo! E sempre la dura ma sapiente realtà dei fatti smaschera il vanto meloniano di un milione di nuovi posti di lavoro: la Corte dei Conti ha rilevato di recente che all’aumento del numero degli occupati non corrisponde una crescita della capacità di spesa nazionale (perché i salari dei nuovi occupati sono bassi o molto bassi e originano un potere di acquisto irrisorio o molto irrisorio). Il governo Meloni può continuare a intestarsi false bandierine di merito, ma queste sono, di fatto, fumo negli occhi di fronte a problemi i cui nodi non tarderanno a chiedere di essere sciolti con la lotta di chi ne subisce le dure conseguenze.
L. R.

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