KARL MARX – “SALARIO, PREZZO E PROFITTO”

Seconda parte dell'intervento letto da Marx alla riunione del 27 giugno 1865 del Consiglio Generale dell'Associazione Internazionale degli Operai. Suddivisa da noi in puntate. <font color=red> Decima puntata </font>
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Seconda parte dell’intervento letto da Marx alla riunione del 27 giugno 1865 del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai. Suddivisa da noi in puntate.
Decima puntata


 

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Il valore del lavoro

Dobbiamo ora ritornare alla espressione “valore o prezzo del lavoro“.
Abbiamo visto che questo valore non è di fatto che il valore della forza-lavoro, misurato sulla base dei valori delle merci necessarie alla sua conservazione. Poiché però il lavoratore riceve il salario soltanto dopo aver finito il suo lavoro, e poiché egli sa che ciò ch’egli dà realmente al capitalista è il suo lavoro, perciò il valore o prezzo della sua forza-lavoro gli appare necessariamente come il prezzo o valore del suo lavoro stesso. Se il prezzo della sua forza-lavoro è di tre scellini, nei quali sono incorporate sei ore di lavoro, e se egli lavora dodici ore, egli considera necessariamente questi tre scellini come il valore o il prezzo di dodici ore di lavoro, quantunque queste dodici ore di lavoro rappresentino un valore di sei scellini. Di qui una duplice conseguenza.
Primo: il valore o prezzo della forza-lavoro prende l’apparenza esteriore del prezzo o valore del lavoro stesso, quantunque, parlando rigorosamente, valore e prezzo del lavoro siano espressioni prive di significato.
Secondo: benché solo una parte del lavoro giornaliero dell’operaio sia pagata, mentre l’altra parte rimane non pagata, benché proprio questa parte non pagata, o pluslavoro, rappresenti il fondo dal quale sorge il plusvalore o il profitto, ciò nonostante sembra che tutto il lavoro sia lavoro pagato.
Questa falsa apparenza distingue il lavoro salariato dalle altre forme storiche del lavoro. Sulla base del sistema del salario anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato. Con lo schiavo, al contrario, anche quella parte di lavoro che è pagata appare come lavoro non pagato. Naturalmente lo schiavo per poter lavorare deve vivere, e una parte della sua giornata di lavoro serve a compensare il valore del suo proprio sostentamento. Ma poiché fra lui e il suo padrone non viene concluso nessun patto e fra le due parti non ha luogo nessuna compravendita, tutto il suo lavoro sembra lavoro dato per niente.
Prendiamo, d’altra parte, il contadino servo della gleba quale esisteva, potremmo dire, ancora fino a ieri in tutta l’Europa orientale. Questo contadino lavorava, per esempio, tre giorni per sé nel campo suo proprio o attribuito a lui, e i tre giorni seguenti eseguiva il lavoro forzato e gratuito nel podere del suo signore. In questo caso il lavoro pagato e quello non pagato erano visibilmente separati, separati nel tempo e nello spazio, e i nostri liberali si sdegnavano, scandalizzati dall’idea assurda di far lavorare un uomo per niente!
In realtà però la cosa non cambia, se uno lavora tre giorni della settimana per sé nel proprio campo e tre giorni senza essere pagato nel podere del suo signore, oppure se lavora, nella fabbrica o nell’officina, sei ore al giorno per sé e altre sei per il suo imprenditore, anche se, in quest’ultimo caso, la parte pagata e la parte non pagata del lavoro sono confuse in modo inscindibile, e la natura di tutto questo procedimento è completamente mascherata dall’intervento di un contratto e dalla paga che ha luogo alla fine della settimana. Il lavoro non pagato, in un caso sembra dato volontariamente, nell’altro caso sembra preso per forza. La differenza è tutta qui.
Se in seguito userò le parole “valore del lavoro“, non si tratterà che di una espressione popolare per “valore della forza-lavoro“. (continua)

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