Appunti di parte operaia sugli obiettivi e le forme della grande mobilitazione “STOP REARM” del 21/06/2025 a Roma.
I soggetti politici e sindacali, i comitati studenteschi e le reti associative territoriali, che in questi mesi si sono incontrati per organizzare un appuntamento nazionale, in occasione della settimana europea di mobilitazione contro il riarmo e del vertice Nato previsto all’Aja il 21 giugno, ed inoltre per manifestare sostegno alla Palestina, si sono divisi, con il risultato che a Roma sabato prossimo si terranno due distinte manifestazioni. Una che sostanzialmente aderisce all’appello europeo della piattaforma Stop Rearm, l’altra capeggiata da Potere al Popolo (PaP) e il sindacato USB che si differenzia su alcune posizioni.
Diciamo subito che si è perso completamente il senso di una manifestazione che avesse il solo scopo di andare in piazza per Gaza, per la difesa della Palestina, per la libertà dei palestinesi, contro il genocidio in atto, contro le politiche criminali di Israele e dei governi occidentali alleati. Ci si trova invece davanti a delle piattaforme politiche con contenuti generici, proposti da soggetti che evidentemente hanno interesse a far valere il loro identitarismo politico e programmatico sopra la questione palestinese.
L’impressione generale è che queste due piazze andranno sicuramente a depotenziare l’impatto che avrebbe avuto invece un unico corteo incentrato sulla Palestina, senza dispersioni tipiche dei percorsi politici della piccola borghesia, in cui anche la Palestina sembra più un pretesto per contarsi e consolidare strategie politiche ed elettorali future.
Eppure a guardarle da vicino, leggendo i loro comunicati, queste due piattaforme hanno più punti in comune di quanto si possa pensare valutando gli esiti organizzativi. Entrambe si inseriscono nel filone del pacifismo, con la solita buona retorica contro la guerra e le parole d’ordine del contrasto alle politiche europee di riarmo per una redistribuzione delle risorse sulla spesa sociale, perdendo di vista le cause da cui originano questi processi.
Se chiedessimo a qualunque cittadino cosa ne pensa del programma di riarmo europeo, dell’investimento di 800 miliardi in spese militari, mentre le risorse sulla sanità, l’occupazione, i sussidi per la disoccupazione, la scuola, l’università, vengono tagliate ad ogni legge finanziaria, crediamo che, ad esclusione dei soggetti direttamente interessati nella produzione di armi, pur con tutta la campagna mediatica che strombazza la necessità di un rafforzamento delle strutture militari, non ce ne siano poi così tanti a preferire un cacciabombardiere a mille posti letto in più in un ospedale.
Secondo gli organizzatori della campagna europea “Stop Rearm”, declinata poi a livello nazionale, questo famelico ricorso agli armamenti ci rende tutti più insicuri e renderà la guerra più probabile.
In realtà le guerre sono già in corso, ce n’è una che imperversa nell’est Europa da oltre tre anni, in Ucraina. C’è l’assedio di Gaza, l’ultimo in ordine di tempo della lunga guerra di colonizzazione da parte di Israele, iniziato nel 2023. C’è un’altra guerra in medio oriente, quella fra Israele e Iran con cui Israele cerca di assicurarsi il controllo dell’area entrando in conflitto diretto col principale paese che per i suoi interessi economici e politici si è schierato dalla parte dei palestinesi.
L’investimento in armamenti segue l’escalation bellica che sta caratterizzando l’attuale quadro politico che vede coinvolte le maggiori potenze imperialistiche in una ridefinizione dei propri obiettivi strategici di mercato nel tentativo di arginare e superare, a scapito delle forze concorrenti, la crisi economica globale.
L’Unione Europea, al suo interno dilaniato dalle rispettive borghesie nazionali confliggenti tra loro, cerca di aumentare complessivamente il peso della propria capacità militare in funzione della difesa dei propri interessi, laddove si considerano minacciati, alla stregua di un imperialismo più debole che cerca di recuperare terreno rispetto a quelli militarmente più avanzati (cino-russo-americano).
Tra i gruppi che si stanno mobilitando a sostegno della Palestina c’è dunque una questione non irrilevante che riguarda la messa a fuoco del binomio guerra/pace: l’imperialismo che caratterizza questa fase del capitalismo è al tempo stesso un fattore di accelerazione della crisi, di destabilizzazione del quadro politico, che trova il suo naturale terreno sul piano dell’escalation militare. Chiunque pensasse il contrario, evidentemente non ha chiaro qual è il ruolo degli Stati imperialisti come accentratori degli interessi delle borghesie nazionali che si muovono globalmente per conquistare mercati e accrescere i propri profitti. Il controllo di territori e risorse per mantenere l’accumulazione capitalistica si ottiene anche per mezzo di interventi militari e questo conduce, inevitabilmente, alla guerra.
Ma allora dovremmo lasciarli fare, dovremmo lasciare che gli Stati si armino sempre di più? Ovviamente riteniamo che l’opposizione alle campagne di militarizzazione che sottraggono risorse alla spesa sociale sia più che giusta, il problema è come inquadrarla all’interno di precise contraddizioni sistemiche, come spiegare il suo sviluppo all’interno dei rapporti capitalistici, per evitare che diventi lo spazio entro cui si costruiscono opposizioni e proteste innocue, ispirate ad illusioni storiche dei settori della piccola borghesia, dove la violenza sprigionata dal sistema di capitale troverebbe come unico argine la stantia invocazione alla pace, gli appelli al buon senso, la retorica anti-militarista priva di qualsiasi efficacia.
Gli appelli al buon senso e alla pace si risolvono solo nello sterminio dei popoli più deboli, delle nazioni sottomesse o delle classi dominate. Il buon senso non ha mai fermato l’avanzata di colonizzatori, predatori di risorse e capitalisti guerrafondai, in nessuna epoca storica.
Il corteo promosso da PaP e USB poi si distingue per un ulteriore salto di qualità nell’elenco dei buoni propositi che la piccola borghesia fa: qui primeggiano non solo le alzate di scudi velleitarie sul potenziamento militare degli Stati, ma anche i sogni su un possibile disarmo generale. Stati capitalisti dunque senza più armi. Borghesie nazionali che collaborano nel rispetto reciproco. È questa la narrazione idilliaca che ci propongono alcune delle organizzazioni politiche e sindacali che si attivano in solidarietà alla popolazione palestinese che, proprio mentre altri fantasticano su un mondo senza armi, sta subendo uno dei massacri più grandi della storia recente. Ma come si potrebbe conciliare, se non in modo del tutto astratto, e quindi avulso dal piano reale dei rapporti di forza tra classi e nazioni, questa pia e pretesca retorica sul disarmo con un aiuto concreto alla resistenza del popolo palestinese? Il dato concreto che il capitalismo produca continuamente crisi economiche, che queste crisi vengano prima fronteggiate con le dinamiche delle guerre commerciali e poi, acuendosi la crisi, e non trovando sbocchi, le guerre commerciali si tramutino in guerre militari, sfugge completamente a queste organizzazioni dei buoni propositi. Ma come sarebbe dunque possibile far coesistere il disarmo e il capitalismo? Gli Stati imperialisti e la pace? Attraverso una divisione in classi pacifista e pacificata? Come sarebbe possibile depurare il capitalismo dai suoi aspetti più feroci lasciando sostanzialmente invariate le strutture materiali su cui esso si riproduce continuamente?
Non pretendiamo risposte dai sognatori della piccola borghesia progressista, una manifestazione a sostegno della Palestina, e che sarà, come speriamo, sicuramente molto partecipata, perché tanta è l’indignazione che cresce tra i ceti popolari contro Israele e i suoi Stati alleati, non può che vederci convintamente presenti, seppure in maniera critica rispetto agli appelli degli organizzatori. Parteciperemo il 21 giugno a Roma alle manifestazioni in programma con una nostra posizione politica e con il nostro supporto militante, perché riteniamo importante dare visibilità e sostegno alla resistenza palestinese, ancor più in un momento in cui i governi occidentali cercano di silenziare e reprimere il dissenso anti-israeliano con ogni mezzo, e perché riteniamo importante che in questi appuntamenti si possa far conoscere un punto di vista operaio.
A. B.
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