Sulla ristrutturazione del settore auto ognuno fa proposte su come uscirne, su come difendere imprese e lavoratori, sulla reindustralizzazione. Nascondono o non hanno coscienza di un piccolo particolare, il padrone non può far altro che il padrone, a meno che lo si elimini, e l’operaio fino a quel giorno non può far altro che resistere, organizzandosi per rovesciarlo.
La produzione mondiale di auto è passata da 50 milioni nel 1995 a 85 milioni nel 2024. La produzione, quindi, non è diminuita, ma si è spostata dall’Europa e dall’America nei paesi a sviluppo recente, principalmente in Asia e soprattutto in Cina con quasi 31 milioni di auto prodotte nel 2024, con una contrazione anche in tradizionali potenze industriali asiatiche come il Giappone. Quindi il settore auto è in crisi soprattutto nei paesi precedentemente più avanzati, e principalmente in Europa e in America, perché alla saturazione dei mercati si è aggiunto lo spostamento delle produzioni nei paesi dove la forza lavoro costava meno, le materie prime erano a costi minori e il tasso medio del profitto era più alto. La dinamica è stata questa: i padroni hanno investito i soldi in Cina, India e altri paesi, come quelli, in Europa, appartenenti all’ex blocco sovietico, dove, in particolare il costo del lavoro, era bassissimo. E hanno disinvestito nei paesi d’origine.
Il risultato è stato un aumento incredibile della ricchezza finanziaria degli azionisti americani ed europei. Ma, nello stesso tempo, una deindustrializzazione sempre più grande nei paesi una volta avanzati.
Questo è quello che è successo anche in Italia. Qui la produzione di autoveicoli è passata da 1,6 milioni di veicoli nel 1995 ai 475.000 del 2024. In 25 anni si sono persi circa 35.000 posti di lavoro. Nel frattempo, gli azionisti hanno continuato a dividersi utili miliardari, nel 2025 si divideranno ancora 5,5 miliardi di euro. Gli operai, invece, ridotti di numero, sono andati sempre di più in miseria con la cassa integrazione.
Gli operai hanno pagato e pagano ancora la mancanza di una propria organizzazione. Non hanno nessun partito che li rappresenti. Le stesse organizzazioni sindacali, invece di organizzarli, hanno accettato nel corso degli anni le scelte padronali per assicurarsi un adeguato profitto ottenuto con un aumento eccezionale dello sfruttamento, con aumento dei ritmi, riduzione delle pause, bassi salari e repressione costante nei confronti degli operai combattivi senza mettere in discussione minimamente il profitto.
Ora, di fronte alla perdita di posti e al rischio concreto della chiusura degli stabilimenti continuano con la solita litania sui piani industriali e interventi governativi per far dare altri soldi agli azionisti Stellantis.
Le proposte più avanzate non vanno oltre la richiesta di un piano di rilancio del settore, sempre con soldi pubblici. Un intervento diretto dello Stato con una partecipazione alla proprietà come in Francia. L’apertura in Italia di stabilimenti di altri produttori di auto.
Se questo avvenisse, la condizione degli operai non cambierebbe.
Non abbiamo a che fare con dei produttori di auto ma con dei manager e azionisti che producono profitti e dividendi per loro stessi.
I piani industriali finanziati dallo Stato portano solo soldi in più nelle casse dei padroni e, se applicati, un maggiore sfruttamento degli operai. A Pomigliano, per fare un esempio, nel 1980 i dipendenti erano quasi 15.000 e si facevano circa 400 Alfa al giorno. In tempi recenti, con meno di 4000 operai complessivi, si è arrivati a produrre per ogni turno, oltre 460 auto del solo modello Panda, e tra questi operai ci sono anche quelli che hanno prodotto centinaia di Tonale al giorno. Lo stesso intervento diretto dello Stato nella proprietà non cambia le cose. In Francia gli operai vengono sfruttati e licenziati come in Italia perché i prezzi delle auto devono essere sempre concorrenziali per poterle vendere.
Anche un nuovo produttore, per esempio cinese, investirebbe in Italia solo se i margini di profitto sono alti e questo può avvenire solo se i ritmi di produzione rimangono alti e i salari sempre più compressi.
D’altra parte, questo aumenterebbe la concorrenza tra produttori in un mercato sempre più intasato di merci.
In una situazione del genere anche le proposte minoritarie più “avanzate”, hanno le gambe corte. “Riduzione di orario a parità di salario”, vecchia parola d’ordine della sinistra sindacale, in assenza di una fortissima mobilitazione operaia, non aveva nessuna possibilità di applicazione in passato, tanto meno ne ha oggi. E poi si sa bene che la riduzione d’orario ottenuta con la lotta non ha altro scopo che ridurre la fatica del lavoro, senza illusioni che essa produca nuove assunzioni. Di regola il padrone risponde intensificando lo sfruttamento nelle ore a disposizione. Una assai limitata riduzione di orario poteva trovare un presupposto oggettivo con lo strapotere tecnologico vantato dalle produzioni in America ed Europa qualche tempo fa, e non ha visto nessuna applicazione generalizzata neanche allora.
Oggi, che le condizioni di produzione si sono invertite, e il primato tecnologico di fatto spetta alla Cina e ad altri paesi “emergenti”, una misura del genere metterebbe definitivamente fuori mercato le produzioni europee e americane, incapaci di investire per compensare la riduzione d’orario con maggiore produttività ed intensità del lavoro operaio. D’altra parte, la “parità di salario” condannerebbe gli operai all’attuale condizione di miseria. Per non parlare dell’idea peregrina di ridurre l’orario di lavoro per gli operai Stellantis con una falsa parità di salario, perché ottenuta integrando il salario ridotto versato dal padrone con i fondi della cassa integrazione. Ma si tenta con la fantasia di superare il fatto innegabile che i manager che gestiscono la forza lavoro usano la messa in libertà degli operai in sovrappiù per poterli ricattare sulle linee, nemmeno la cassa integrazione a rotazione è attuata e i sindacalisti asserviti non si sognano nemmeno di farla applicare. Molto più radicale e diretta è a questo punto la richiesta operaia di una cassa integrazione che copra il 100% del salario e che rispetti effettivamente la turnazione.
Gli stessi processi di riconversione industriale, paventati da alcuni per affrontare l’attuale crisi, oltre a presupporre una mobilitazione operaia che al momento non esiste, sono comunque di difficilissima attuazione in una situazione economica in cui si alternano fasi di crisi conclamata con lunghi periodi di stagnazione.
Che la riconversione industriale sia una pia illusione lo dimostrano tutti i tentativi senza esiti positivi del passato. Esempi recenti, ma importanti, sono la Gkn, dove il tentativo degli operai su questa strada è praticamente fallito. O quello della Whirpool, dove a parte i piani promessi, la realtà è che non c’è ancora nulla nella pratica. L’unica concreta riconversione industriale che si prospetta oggi è quella per gli armamenti, in vista di un nuovo, sanguinoso conflitto mondiale.
L’attuale crisi ci fa capire che il sistema economico dei padroni non assicura più neanche la sopravvivenza minima agli operai dimostrando che il cosiddetto “unico sistema economico possibile” sostenuto da politici e intellettuali negli ultimi decenni, fa acqua da tutte le parti ed è arrivato il momento del suo funerale.
F. R.
Da un comunicato stampa dell’FMLUniti

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