EX ILVA, I FATTI E LE PAROLE DA UN PADRONE ALL’ALTRO

Tutti si preoccupano di quanto il nuovo padrone pagherà la fabbrica, quanto spenderà per modernizzare gli impianti, ma quanto pagherà gli operai, in che condizioni li utilizzerà e in che numero, rimane indefinito. Tanto chi andrà ad avvelenarsi sull’altoforno non sono loro.
Condividi sui social:

Tutti si preoccupano di quanto il nuovo padrone pagherà la fabbrica, quanto spenderà per modernizzare gli impianti, ma quanto pagherà gli operai, in che condizioni li utilizzerà e in che numero, rimane indefinito. Tanto chi andrà ad avvelenarsi sull’altoforno non sono loro.

I fatti sono che è stata prorogata di un anno la cassa integrazione per più di 3.062 dipendenti. Le parole sono tutte quelle che sindacalisti e politicanti vari stanno sfornando per prepararli a ingoiare il futuro peggioramento della loro condizione. Agli operai non deve interessare la gestione del gruppo siderurgico, bensì salvare il salario e la pelle

Per capire non solo come è cambiata la condizione degli operai dell’ex Ilva negli ultimi sette anni, ma soprattutto come si prospetta per i prossimi bisogna partire dai fatti. Dagli ultimi fatti, che dicono che il 4 marzo, al ministero del Lavoro, Acciaierie d’Italia e sindacati metalmeccanici (Fiom, Fim, Uilm, Ugl, Usb) hanno rinnovato per un altro anno la cassa integrazione straordinaria a rotazione. Sono bastati tre incontri, con un’accelerata data dalla convocazione del governo ai sindacati sulla vendita dell’ex Ilva per l’11 marzo a Palazzo Chigi, per firmare il nuovo accordo che fissa il numero complessivo di cassintegrati in 3.062 dipendenti (in larghissima parte operai) su poco meno di 10mila. In cassa andranno 2.680 dipendenti a Taranto, 190 a Genova, 115 a Novi Ligure, 25 a Marghera, 18 a Milano, 15 a Racconigi, 10 a Legnaro e 9 a Paderno Dugnano.

BANDIERINE SUL PETTO PER NASCONDERE LA SOSTANZA
È un fatto, quindi, che per un altro anno 3.062 dipendenti cercheranno di far sopravvivere le proprie famiglie con salari e stipendi ridotti al 70%, gli operai con molto meno di 1000 euro al mese. L’accordo è stato firmato dai cinque sindacati senza che abbiano consultato gli operai e gli altri dipendenti. Tanto meno i loro dirigenti si sono preoccupati di chiamarli a qualche forma di protesta e lotta. Anzi a firma avvenuta hanno rivendicato a proprio merito che la richiesta dei commissari dell’ex Ilva, partita da 3.420 cassintegrati, di cui 2.955 a Taranto, il 28 febbraio è scesa a 3.200 e infine, sotto loro pressione, si è attestata a 3.062! Hanno sbandierato come altro grande successo il riconoscimento della cosiddetta una tantum welfare, un bonus elemosina per i dipendenti sotto forma di buoni spesa che scatterà all’inizio del 2026 se Acciaierie d’Italia raggiungerà nel 2025 determinati volumi di produzione di acciaio. Hanno infine attribuito a se stessi, come altra doppia virtù, che nell’accordo c’è scritto che “non esistono esuberi strutturali” (ma una cassa integrazione che dura ininterrotta dal 2019 non è ormai strutturale?) e che è stata confermata la validità dell’intesa sottoscritta con ArcelorMittal il 6 settembre 2018, che prevedeva che i cassintegrati del bacino di Ilva in amministrazione straordinaria fossero poi progressivamente riassorbiti (cosa che però non è mai avvenuta, tanto che nel frattempo i cassintegrati storici di Ilva in as -amministrazione straordinaria-, avendo alcuni scelto l’incentivo all’uscita, sono scesi a circa 1.600). Bandierine sul petto per nascondere la sostanza, cioè che attualmente nell’ex Ilva più di 3.000 dipendenti, quasi tutti operai, sono realmente in esubero per i programmi aziendali. Un numero che nelle scorse settimane è rimbalzato, guarda caso, di bocca in bocca, tra referenti delle cordate padronali che hanno presentato proposte di acquisto dell’ex Ilva, economisti idealmente o concretamente a loro libro paga e politici sempre proni a stendere il tappeto ai padroni di turno, per predire tagli occupazionali necessari per garantire prospettive di mercato e, quindi, di profitto alla futura Ilva una volta che ne sarà stata effettuata la vendita!

SETTE ANNI DOPO, IL CONFRONTO CON IL 2018
Dopo la firma dell’accordo i sindacalisti sono passati all’incasso dei propri “meriti” esibendosi in sperticate interviste. Gli operai devono seriamente preoccuparsi a lasciare il proprio futuro nelle mani di sindacalisti che sull’accordo e sulla prossima vendita dell’ex Ilva così si sono espressi: Valerio D’Alò e Biagio Prisciano della Fim Cisl: “La conferma dell’accordo, oltre a mettere in sicurezza i lavoratori e il loro reddito, ci consente di proseguire in un solco di relazioni industriali che saranno fondamentali per la costruzione di un accordo sindacale in vista della cessione alla nuova proprietà. Servirà l’impegno di tutti i soggetti coinvolti per rendere definitiva una svolta per la ex Ilva e la sua vertenza”; Guglielmo Gambardella e Davide Sperti della Uilm Uil: “Dopo quasi 13 anni di sofferenze e incertezze per i lavoratori dell’ex Ilva e dopo la tragica esperienza di ArcelorMittal, speriamo quanto prima di poter avere una svolta con un futuro investitore, credibile e seriamente intenzionato a rilanciare il più grande gruppo siderurgico italiano”; Loris Scarpa, Francesco Brigati e Federico Porrata della Fiom Cgil: “È un accordo importante ma non risolutivo. Ora il confronto si sposterà a Palazzo Chigi. Ribadiremo al governo la nostra posizione: per la vendita dell’ex Ilva occorre garantire tutta l’occupazione, l’integrità del gruppo siderurgico e la presenza in equity nel capitale da parte dello Stato”; Franco Rizzo dell’Usb: “Adesso vanno tenuti insieme i diversi aspetti della vertenza, quindi la tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente, e quella dei posti di lavoro, diretti, indiretti e di Ilva in as”.
Parole che, mescolando accenti nazionalistici e implorazioni di magnanimità dai nuovi padroni, riecheggiano quelle che accompagnarono la firma dell’accordo nel 2018 con ArcelorMittal, allora sbandierato come il migliore possibile, anche se dopo rinnegato come estraneo alle proprie responsabilità. Adesso, come sette anni fa (basta andare a rileggersi le cronache del tempo), questi sindacalisti (gli stessi o gli eredi di quelli del 2018) parlano e agiscono atteggiandosi a “comproprietari” dell’ex Ilva e quindi a responsabili della sua gestione, perciò si preoccupano che i futuri padroni siano investitori credibili e che siano essi a garantire la piena occupazione e a darsi pena della salute e della sicurezza degli operai e della tutela dell’ambiente! Obiettivi, quindi, che per questi sindacalisti devono passare attraverso la credibilità finanziaria dei futuri padroni e non attraverso la lotta degli operai, che viene di fatto scartata dallo scenario prossimo dell’ex Ilva.
Il loro sogno è vendere l’azienda a dei padroni bravi e quindi buoni e non avere rogne: nel 2018, per giustificare il proprio appoggio all’accordo, rassicuravano così gli operai esortandoli ad avere fiducia nei padroni di ArcelorMittal, salvo poi essere smentiti dai fatti e tacciare i Mittal di essere venuti meno ai patti!
E per essere ora più sicuri che il sogno si realizzi reclamano che nella compagine societaria entri lo Stato italiano almeno come socio di minoranza, in modo, sostengono, da fungere da pungolo e guardiano degli investitori internazionali e da garante occupazionale verso gli operai. Da un lato, memori dei Mittal, cercano di pararsi il sedere, dall’altro spargono illusioni nella testa degli operai spingendoli alla fiducia e alla sottomissione allo Stato padrone come garante della loro condizione di schiavi, quando è chiaro da tempo che la forma che assume la proprietà del capitale industriale non cambia i rapporti di sfruttamento degli operai: per decenni la proprietà del gruppo siderurgico Italsider è stata statale, ma ciò non ha impedito che migliaia di operai fossero non solo sfruttati ma addirittura massacrati anche con la loro esposizione continua all’amianto; nel 2021 in Acciaierie d’Italia è entrata come socio di minoranza Invitalia (agenzia governativa italiana costituita come società per azioni e partecipata interamente dal Ministero dell’economia e delle finanze), ma ciò non ha tolto gli operai siderurgici dalla loro condizione di schiavi e non ha impedito che migliaia di essi fossero messi in cassa integrazione e continuino a esserlo. Ma con l’ex Ilva di nuovo nelle mani dei funzionari dello Stato, sindacalisti e rappresentanti politici avrebbero, grazie alla gestione statale, più possibilità di ricavare piccoli privilegi e posti protetti.

AL CORO SI SONO AGGIUNTI POLITICANTI VARI
A fare coro con questi sindacalisti si sono uniti politicanti di varia estrazione, i quali o tentano di rassicurare che tutto adesso va bene e poi andrà meglio, oppure si improvvisano mezzani, intermediatori decisi a far pagare al prossimo acquirente dell’ex Ilva il “prezzo giusto” o, anche essi, a far ritornare l’ex Ilva allo Stato.
Fra i primi, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, il quale, al termine del recente incontro con il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, sulle principali vertenze pugliesi, l’ha risolta bonariamente dichiarando che “sull’ex Ilva abbiamo avuto assicurazione che in quattro anni verrà compiuto il processo di totale decarbonizzazione della fabbrica con totale salvaguardia dei livelli occupazionali. Questo è un ottimo risultato. Bisogna fare in modo che la procedura di decarbonizzazione si concluda nei tempi previsti in modo positivo. Sono rassicurato dal fatto che il ministro mi ha confermato che si devono compiere nei quattro anni gli investimenti sul Dri, la nuova tecnologia che consente di produrre acciaio dal minerale e non dal rottame ferroso e in grado di sostituire il ciclo integrale. E questa procedura coinvolgerà l’acquirente. Così è previsto dal bando. Inoltre abbiamo chiesto che il governo mantenga una sua partecipazione nell’azienda e mi pare che anche da questo punto di vista il ministro Urso ci abbia dato buone speranze”.
Fra i secondi, i responsabili del blog TarantoContro i quali, dopo aver fatto una disamina delle principali offerte per l’acquisto dell’ex Ilva e verificato che, a fronte della richiesta del governo e del ministro Urso di 1,5 miliardi di euro, i possibili acquirenti sono disponibili a versare somme anche notevolmente inferiori, gridano che questi sono prezzi stracciati, che “queste offerte sono una vera svendita”, che occorre “fermare la svendita dell’Ilva che ancora una volta sarà scaricata sui lavoratori con condizioni di lavoro sempre peggiori”. Dando così a intendere che se un futuro padrone versasse gli 1,5 miliardi richiesti sarebbe garanzia di una migliore condizione operaia, per cui gli operai per difendersi non devono affidarsi alla propria lotta ma riporre fiducia nel grado di apertura della borsa del padrone! E concludono che “non c’è altra soluzione che imporre qui e ora che lo stabilimento resti nelle mani dello Stato e si affronti uno scontro frontale con lo Stato e il suo governo perché vengano salvaguardati lavoro, salario, condizioni di lavoro, contratti, salute e sicurezza per i lavoratori e per la città”, chiedendo, infine, che su questo obiettivo “i sindacalisti (…) siano in grado di mobilitare realmente i lavoratori”, che “ricostruiscano le condizioni per una lotta generale”! Premesso che gli operai non riscuoteranno una percentuale sul prezzo pattuito o pagato per la vendita dell’ex Ilva, se essi affidassero la propria sorte ai sindacalisti venduti e ai loro promotori di TarantoContro sarebbero spacciati in partenza.

FALSI E VERI PROBLEMI DEGLI OPERAI
Per gli operai il problema non è se lo Stato e il suo governo svenderanno la fabbrica per pochi euro e se il nuovo padrone l’acquisterà a prezzi stracciati e garantirà la bontà produttiva, bensì quanto e come il nuovo padrone pagherà a essi il prezzo delle loro braccia e in che condizioni le utilizzerà. Semmai gli operai potrebbero rivendicare che se il nuovo padrone risparmiasse sul prezzo di acquisto non dovrebbe permettersi di ritoccare il prezzo della forza-lavoro o il suo numero. È tuttavia un fatto che nel coro di personaggi vari che chiacchierano sull’ex Ilva nessuno dice una parola sul rispetto del contratto dei metalmeccanici, sulla continuità salariale e normativa per ciascuno di essi, sulla fine della cassa integrazione. Più voci accennano, però, come un fatto ineluttabile, che occorrerà ridurre il numero degli operai. E basta questo perché gli operai comincino seriamente ad allarmarsi.
L.R.

Condividi sui social:

Lascia un commento