8 MARZO DIRITTI CIVILI E DIRITTI SOCIALI

Se la lotta femminista non si colloca all’interno di una visione e di una lotta fra le classi, rimane un femminismo impegnato solo sulla difesa dei diritti civili.
MA I DIRITTI CIVILI, SENZA I DIRITTI SOCIALI, SI APPLICANO SOLO PER LE
CLASSI PRIVILEGIATE.
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Se la lotta femminista non si colloca all’interno di una visione e di una lotta fra le classi, rimane un femminismo impegnato solo sulla difesa dei diritti civili.
MA I DIRITTI CIVILI, SENZA I DIRITTI SOCIALI, SI APPLICANO SOLO PER LE
CLASSI PRIVILEGIATE.

Oggi un po’ ovunque a livello internazionale (Italia inclusa), si è affermato un femminismo di matrice borghese (da “me too”, “non una di meno”, “se non ora quando?”), che ha concentrato le sue lotte su tematiche quali “le quote rosa” e le “pari opportunità”.
Questo ha contribuito molto a far arretrare le lotte femministe, che a partire dagli anni 60/70, si erano impegnate a collegare gli obbiettivi della lotta di genere, con gli obbiettivi della lotta contro tutte le forme di violenza (verso tutte/i), generate dal sistema capitalista. Pur essendo fondamentale la denuncia e la battaglia contro la violenza di genere e gli abusi sessuali, che si verificano sul posto di lavoro, ed in altri contesti sociali, questo concentrarsi unicamente su questi obbiettivi, ha portato una parte del movimento femminista ad una deriva “punitiva”. Mi riferisco a quel femminismo, che invoca pene detentive più severe, o punta a criminalizzare un maggior numero di reati, legati alla violenza di genere, come se questo rappresentasse una soluzione al problema. Concentrarsi sulla punizione, secondo me, sposta il problema, dall’analisi, delle condizioni strutturali che determinano l’oppressione in generale su scala collettiva, a responsabilità individuali. Di conseguenza, il “rimedio” e la “punizione” rimangono ”soluzioni individuali”. Rita Segato (prof. di antropologia e bioetica all’università di Brasilia) ha sottolineato nei suoi scritti che “più prigioni non risolvono il problema” e che “la prigione è una vera e propria scuola di stupro per stupratori”. E’ come voler eliminare un sintomo senza eliminare la malattia che lo causa. Ma il carcere è uno strumento di cui si serve lo Stato per reprimere ed ostacolare le istanze sociali, quindi come è possibile combattere l’oppressione di genere invocando più potere a quelle istituzioni repressive, come il sistema carcerario, caratterizzato da una forte matrice di violenza di classe, razzista, che per prime dovremmo combattere/abbattere. Questa logica “punitiva”in realtà ci si ritorce contro, perché rappresenta le donne come “vittime, individuali” e non come “soggetti collettivi”. Contribuisce ad ostacolare il percorso di aut-organizzazione della nostra autodifesa, al di fuori di quelle istituzioni, che sono le prime responsabili nel generare violenza. Un buon esempio in tal senso ci viene da molte realtà di organizzazioni di donne (dall’India al Sud America) che praticano l’autodifesa collettiva, attraverso il controllo e il presidio dei territori, intervenendo in difesa delle donne che subiscono la violenza sia familiare che istituzionale. Ma questo sta avvenendo anche in Italia, dove si è creata una rete di giovani donne che si danno reciproco aiuto nell’affrontare situazioni di pericolo, che organizzano anche corsi di autodifesa nelle periferie delle città e questo permette loro di avere un contatto diretto con le donne di tutte le nazionalità appartenenti ai ceti sociali più poveri ed emarginati, che diversamente avrebbero difficoltà ad uscire allo scoperto. Un punto di contatto importante, per stabilire un ponte, per sfatare questo mito della “ sorellanza” che unisce le donne , a favore della solidarietà che unisce le donne appartenenti alla stessa classe sociale, quella delle classi subalterne.

“INTERSEZIONALITA’”

(concetto già in elaborazione dalle femministe nere americane negli anni 70, e ripresa nel 1989 dall’avvocata femminista Kimberle Crenshaw ). E’ diventata una parola frequente e imprescindibile, all’interno dei dibattiti dell’attivismo femminista, definisce i gruppi di persone in base alla serie di discriminazioni che subiscono contemporaneamente (sessismo, razzismo, classe). Faccio ancora fatica a capire che necessità c’era di introdurre il concetto di intersezionalità, rendendolo molto di moda negli ambienti femministi, dove spesso ho la sensazione se ne faccia uso senza averlo neanche capito. Avendo vissuto in prima persona ed in maniera attiva il femminismo degli anni 70, so per certo che questo concetto era già presente nel dibattito politico di quegli anni. Ma le sue radici sono anche più lontane. Il movimento femminista degli anni 60/70 aveva già posto in evidenza il nesso tra patriarcato, razzismo e capitalismo, rifacendosi agli approfondimenti e alla interiorizzazione degli studi fatti da Marx ed Engels, rispettivamente nel “Capitale” e nella “Origine della famiglia , della proprietà privata e dello Stato”. “Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è di pelle nera” (scriveva Marx) ed ancora “I progressi sociali, i cambiamenti d’epoca sono in relazione diretta al progresso delle donne verso la libertà”(spiegava Engels). Quindi la mia domanda rimane senza risposta, considerando anche il fatto che al concetto di intersezionalità , si sono aggiunte con il tempo altre forme di discriminazioni, “sessualità, nazionalità, età e diversità funzionali”, che hanno sicuramente e giustamente dato visibilità a una moltitudine di identità oppresse, ma al contempo dando anche origine a una “gerarchia di oppressioni”. Lo stesso sistema capitalista si è affrettato ad appropriarsi (con l’intento di disinnescarle) del boom delle diversità, assimilandole come un “mercato di identità” (in poche parole ci fa i soldi sopra). Peccato che in questo attuale dibattito e programma di lotte femministe, la parola “classe” sia rimasta solo sulla carta (per accontentare un po’ tutte). La critica alla struttura sociale capitalistica, vera causa di tutte le forme di oppressione e sfruttamento umano, è lentamente sfumata. In questa “scaletta delle priorità”, le condizioni delle classi subalterne, sono diventate invisibili, tanto da indurre molte/i a parlare della scomparsa della classe operaia. Questo cambiamento di obbiettivi nelle lotte del movimento femminista, a mio avviso si è reso anche responsabile di aver sviluppato un clima di rassegnazione generale, nella critica alla struttura sociale capitalistica, percepita come impossibile da mettere in discussione.
Che le oppressioni nella società capitalista sono molteplici e si sovrappongono l’una sull’altra, non è una novità e non è un concetto particolarmente rivoluzionario. Quello che fa la differenza è come combatterle. A governare il mondo non sono gli “uomini” o i “bianchi”, in quanto tali, ma gli uomini e le donne bianche/i , nere/i, della classe borghese. Il loro dominio si manifesta attraverso relazioni di sfruttamento, le proletarie lo hanno sempre saputo. “Salari bassi e razzismo” è quello che vivono da sempre. Anche se le femministe “intersezionaliste” denunciano sessismo e razzismo, non vedono e non parlano mai delle donne della classe operaia, le donne immigrate le vedono come donne “razzializzate” e non come “lavoratrici invisibili”. Fantasmi sparpagliati a faticare su tutto il territorio nazionale, spesso sepolte vive nelle case, o sfruttate nelle piccole aziende tessili o agricole a conduzione familiare, a pochi metri dalle nostre case, o a cuocere sotto al sole nelle serre sparpagliate sulle strade che portano al mare. Una di queste lavoratrici “fantasma” è la mia amica F. Lei non è italiana, ma il mondo delle “invisibili” non fa differenza di razza, età e nazionalità. Ultimamente ha lavorato in una fungaia, ce ne sono molte nella zona di Roma sud e dei Castelli romani. Assumono personale , solo donne, nei periodi di picco lavorativo stagionale. In quello che chiamano “contratto”, sono previste 7 ore di lavoro, ma effettive se ne fanno anche 11/12 pagate a nero, 7.50 l’ora. La fungaia inutile dirlo non è un posto salubre per lavorare. Non vengono forniti adeguati indumenti di lavoro, si passa da un ambiente caldo-umido, alle celle frigorifere, con gravi ripercussioni sulla salute. Si lavora sotto il controllo delle telecamere, e di una responsabile (quasi sempre italiana), che si assicura che il ritmo di lavoro venga mantenuto il più veloce possibile. Ma chi determina quanto questo debba essere veloce è un gruppo di lavoratrici che sono lì da più tempo, e che sono tutte straniere della stessa nazionalità. La mia amica F. le ha definite “macchine da guerra”! Tra urla derisioni e offese “spronano le altre a mantenere alto il ritmo. Lavorando in modalità “scorrimento”, accelerano loro stesse fino allo sfinimento, scommettendo ad alta voce su quanto durerà questa o l’altra lavoratrice. Queste “macchine da guerra”, non sono per niente solidali neanche tra loro, non sentono questa “sorellanza”, che le accomuna, e se possono, diventano anche spie. E’ probabile che una volta tornate a casa subiscano pure le angherie dei mariti- compagni. Ma allora perché lo fanno? Che cosa ci guadagnano? Probabilmente niente. Ma sicuramente si sentono agli occhi del loro padrone, per quel diabolico meccanismo che ti fa sentire importante, anche quando non lo sei, indispensabili e migliori delle altre. Per quanto marginale e piccolo questa realtà lavorativa è un esempio, di come il capitale utilizza e affina le “differenze”, alimentando ideologie razziste, per aumentare lo sfruttamento, e mantenere le divisioni tra la classe operaia.
A proposito, la mia amica mi ha detto che il padrone della fungaia ha in bella mostra esposto un riconoscimento come “cavaliere del lavoro”! Lo sfruttamento è premiato!
Ma non è anche questa intersezionalità? La crisi permanente del capitalismo contemporaneo, ha riportato all’attualità il lavoro di Marx e la critica Marxista, quello che vedo di positivo è che questa pratica sta attraversando visibilmente molti dei movimenti femministi internazionali, ed anche in Italia ci sono giovani donne che si sono poste in questa ottica, ed è importante dare spazio e visibilità alle loro lotte.
Il movimento femminista italiano sembra non accorgersi che la “caccia alle streghe, la guerra alle donne” dall’India all’Africa non si è mai fermata. Non ha neanche cambiato la sua modalità. Tra lapidazioni e arse vive, il brutale massacro del corpo delle donne in quelle parti del mondo è una pratica costante. Mentre la mercificazione del capitalismo le ha rese puro oggetto di consumo oltre che forza lavoro da sfruttare nelle fabbriche e nelle campagne. Il passaggio dal feudalesimo al capitalismo fu caratterizzato da una guerra alle donne nel XVI e XVII secolo in Europa e nel Nuovo Mondo causando la morte di migliaia di loro. Perseguitare le donne come streghe ha significato estrometterle dalla gestione del potere, confinarle nel lavoro domestico e ne ha legittimato la subordinazione agli uomini, dentro e fuori della famiglia. La caccia alle streghe ha costruito un ordine patriarcale specifico che il capitalismo ha utilizzato per trasformare le donne in una forza lavoro a basso prezzo, ricattabile e controllabile anche attraverso la famiglia stessa. La strega è stata la “comunista”, la “terrorista” della sua epoca, da annientare con una esecuzione pubblica sulla piazza del villaggio, affinché il suo corpo in fiamme servisse da monito a tutte quelle che assistevano alla loro esecuzione, per terrorizzarle , educarle e disciplinarle ad un nuovo modello di donna , obbediente e sottomessa nei campi e nelle fabbriche per il il capitalismo nascente.
Alla luce della rinnovata e mai del tutto sparita violenza contro le donne , appare evidente che essa “ è radicata nelle tendenze strutturali da sempre costitutive dello sviluppo capitalistico e del potere statale”(Silvia Federici). Non trovano mai spazio neanche nei dibattiti femministi le lotte del crescente movimento femminista, dall’altra parte del “nostro mondo”, che spesso è alla testa di movimenti di opposizione alle politiche di “saccheggio estrattivista” delle terre di quei popoli definiti “originari”che spesso si fa fatica anche a trovare sulla cartina geografica. Uno di questi è il popolo di Jujux nella provincia nord-Argentina. A dirigere la lotta ci sono un gruppo di donne che rivendica l’appartenenza a quella terra e la difesa della proprietà collettiva delle risorse della terra.
Buon 8Marzo ! A tutte le donne sfruttate sulla strada della rivolta!
S.O.

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