8 MARZO, SCHIAVITÙ E SERVITÙ

Colf, badanti, braccianti agricole sono sottomesse ad una forma di schiavitù femminile che passerà sotto silenzio anche l’8 Marzo, giorno un cui le montagne di chiacchiere sulla condizione femminile diventano di moda.
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Colf, badanti, braccianti agricole sono sottomesse ad una forma di schiavitù femminile che passerà sotto silenzio anche l’8 Marzo, giorno un cui le montagne di chiacchiere sulla condizione femminile diventano di moda.


 

Gli ambiti lavorativi, dove emerge di più la forma di “SCHIAVITÙ FEMMINILE “sono quelli delle colf, badanti e braccianti agricole. In Unione Europea lavorano 2,5 milioni di persone come badanti, in maggioranza donne, un settore dove la violazione dei diritti basilari è all’ordine del giorno. Precarietà e sfruttamento, sono le caratteristiche del “contratto del lavoro domestico”. In una indagine del FRA (European Union Agency for Fundamental Rights), si ha una fotografia della situazione, forse anche ben al di sotto della realtà. Dalle testimonianze delle lavoratrici, appare evidente che il lavoro da loro svolto, si riassume benissimo con due aggettivi: SCHIAVITÙ E SERVITÙ. Le donne intervistate hanno denunciato abusi di ogni genere: bullismo, violenze emotive e fisiche, spesso allargate anche ai loro familiari. Spesso viene loro negato l’accesso all’acqua e alla doccia o recarsi al bagno durante l’orario di lavoro, senza parlare dei controlli a cui sono sottoposte con telecamere di sorveglianza anche nelle camere da letto. Per capire di che tipo di “lavoro” parliamo, basta fare due conti. Il salario medio è di 800 euro, nessuna tutela dei diritti di maternità, malattia e licenziamento. Gli orari di lavoro superano alla grande il massimo previsto dalla “legge” (fino a 60 ore settimanali). In linea di massima queste condizioni si estendono un po’ per tutta Europa, ma per quello che riguarda nello specifico l’Italia, i dati ISTAT aggiudicano il primato nazionale del sommerso al comparto domestico, (quasi il 55% di colf e badanti è senza contratto). Sempre secondo i dati ISTAT del 2020 sono stati censiti 920mila lavoratori domestici, di cui l’89% sono donne e più del 70% straniere . La definizione di lavoro domestico è un po’ riduttiva dal momento che le lavoratrici in questo settore si vedono costrette ad allargare le loro mansioni anche in ambito para infermieristico, di cui non dovrebbero assolutamente occuparsi. La “Femminilizzazione” di questa professione è un elemento che accentua ancor di più lo sfruttamento. Come spiega la professoressa Chieragato (docente di Diritto del Lavoro Europeo presso l’università di Verona), “la forte segregazione di genere nel settore dell’assistenza e della cura, così poco tutelato ha avuto delle conseguenze negative rilevanti, sulla persistenza del divario di genere in ambito lavorativo” (in particolare per quello che riguarda le donne immigrate).Nel 2005 due psichiatri di Kiev, avevano osservato e studiato sintomi comuni a molte donne che avevano lavorato come badanti in Italia (Ucraine, Moldave, Romene, Filippine, e Sudamericane), definendo i loro disturbi con il nome di “SINDROME ITALIA”, (un made in Italy di cui andare “fieri”). In seguito la psichiatra Petronela Nechita, della clinica di Lasi più che una malattia l’ha definita un fenomeno medico-sociale. Gli elementi scatenanti di questa “sindrome” nelle donne -lavoratrici, sono: la mancanza di sonno, il distacco dalla famiglia, essere state costrette a delegare la loro maternità a nonni mariti e vicini di casa, (un peso, quello di aver lasciato i loro figli così lontano, insopportabile). Molte di loro pur non avendo le qualifiche e soprattutto senza un adeguato compenso, si sono occupate senza sosta (anche 24 ore su 24) di persone non autosufficienti. Ritmi di lavoro massacranti, nell’indifferenza e ingratitudine generale, hanno causato in loro questa “sindrome” che le fa sprofondare in una profonda depressione e che spesso le porta al suicidio (informazioni prese dall’articolo di Francesco Battistini, giornalista, “Sindrome Italia“ Corriere della Sera).
Anche nel settore agricolo l’Italia si contraddistingue per la particolare “disattenzione” che mostra nei confronti delle lavoratrici agricole, dove il livello di sfruttamento va ben oltre l’immaginabile. In una indagine svolta dalla giornalista Stefania Prandi, (libro/inchiesta “Oro rosso , fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel mediterraneo”), il quadro della situazione che ne esce è raccapricciante “… nei campi e nelle serre italiane, le donne rappresentano circa un terzo della forza lavoro, … arrivano anche all’80% … le donne costano meno degli uomini, pur svolgendo le stesse mansioni, e spesso non riescono a ribellarsi perché hanno sulle spalle il carico familiare e le aspettative sociali …” (nel caso delle donne migranti il carico è raddoppiato). Ho trovato nell’inchiesta svolta da Stefania Prandi, questa testimonianza, che mi ha provocato sgomento e rabbia cieca, soprattutto constatando che in queste situazioni non c’è un cazzo di sindacalista o “società civile” che faccia sentire il suo “sdegno”. “Il mio ex padrone arrivava la sera quando i bambini andavano a letto, mi mostrava la pistola e io dovevo fare quello che voleva. L’ho denunciato non è servito a niente è ancora libero” (lavoratrice agricola nelle serre di Vittoria).
Il salario delle lavoratrici agricole va dai 600 ai 900 euro, per giornate di lavoro infinite che iniziano anche alle 2-3 del mattino per chi deve prendere il pullman. Anche qui chi ha figli è costretta ad arrangiarsi come può. “Molestie sessuali, verbali, fisiche, ricatti, tentati stupri e stupri, non sono eccezioni”. Le violenze sono perpetrate da datori di lavoro, caporali, supervisori, quel genere umano vigliacco e schifoso, che sa che nella maggior parte dei casi resteranno impuniti. La maggior parte delle lavoratrici vive all’interno di fattorie fatiscenti o rifugi abbandonati, spesso senza accesso ai servizi di prima necessità (acqua e servizi igienici), pagando ovviamente l’affitto ai loro padroni (inchiesta della giornalista Stefania Prandi). Viste le premesse non è difficile capire come per le lavoratrici domestiche e agricole sia difficile difendersi e ribellarsi, difficile ma non impossibile. Chi si ribella anche fisicamente paga un prezzo altissimo, anche a causa dell’aspetto individualista della ribellione. Ma soprattutto quello che più ostacola la denuncia è l’omertà e ipocrisia di chi sa, vede, ma preferisce tacere. C’è da chiedersi dove sta la “società civile” che si indigna un giorno sì e uno no, per tutto quello (di grave) che succede dall’altra parte dell’emisfero. Ma dove stanno anche quelle organizzazioni “femministe” che al grido di “non una di meno” non vedono o non vogliono vedere che all’appello mancano tante di quelle donne “invisibili “che non hanno il tempo e la forza di occuparsi degli “asterischi” e “cancelletti”. Quello delle invisibili è un vero e proprio esercito internazionale di donne, con una collocazione di classe ben precisa, ed un ruolo importante nello scontro con il capitalismo. Se il potere di questo aumenta quando è una donna a ricevere un salario, sminuendone in modo significativo il suo valore, nel confronto delle “invisibili” lo squilibrio è anche maggiore. L’inchiesta sulle lavoratrici in agricoltura nel sud d’Italia, pur essendo migliaia di km lontano dal Brasile, denuncia una condizione di lavoro delle donne, praticamente identica a quelle Brasiliane. La maggior parte delle donne impiegate nel lavoro domestico in Brasile è NERA e POVERA (DI ORIGINE Africana). Subiscono violenze di ogni tipo anche sessuali. Le associazioni di donne denunciano una situazione di “schiavismo di altri tempi”, perpetrata alla luce del sole da padroni bianchi, ma anche da quegli uomini “illuminati” della sinistra Brasiliana. La pratica della violenza sessuale molto diffusa negli anni 70-80, veniva tollerata perché considerata una “iniziazione sessuale” nei confronti delle lavoratrici domestiche, considerate “invisibili senza storia” (fonti Valeria Ribeiro Corossacz antropologa e scrittrice). Sfatando quella figura di donne nere, povere, senza storia, le “Invisibili” negli ultimi 20 anni si sono rese protagoniste di dure lotte, per il riconoscimento dei loro diritti, scontrandosi con la tenace opposizione delle classi borghesi, che non hanno potuto più fare a meno di “Vederle”.
Contando solo sulle loro forze, si sono imposte come soggetto politico, in grado di elaborare una piattaforma di lotta. La Ribeiro ha evidenziato un elemento che secondo me accomuna il modo di agire delle lavoratrici brasiliane a quelle italiane: il SILENZIO. Ma l’antropologa sottolinea che le donne tacciono non perché acconsentono, “ma perché valutano che per resistere, devono tacere, perché se dovessero affrontare da sole i loro sfruttatori, andrebbero incontro ad ulteriori forme di oppressione che ritengono non essere in grado di affrontare da sole”. Il movimento delle lavoratrici domestiche sta attuando una nuova strategia, quella dell’alleanza con le altre donne che subiscono il loro stesso sfruttamento in altri ambiti lavorativi. Questo mi sembra già un passo significativo per uscire dal “silenzio”, e aver capito l’importanza del riconoscersi all’interno della stessa classe a combattere un nemico comune. Ma dove possono trovare la forza e il coraggio queste donne di denunciare tutto lo sfruttamento e i soprusi di cui sono vittime, cosa devono fare per capovolgere la loro condizione di “vittime” e trasformarsi in vere lottatrici, opponendosi al capitalismo e al patriarcato, che le impone condizioni di lavoro e di vita così terribili? Se e quando intervengono i sindacati di categoria e le organizzazioni femministe, si limitano a chiedere alle istituzioni di far valere le leggi che regolano il mercato del lavoro. Ma come si può chiedere e credere che le istituzioni borghesi al servizio dei padroni reinventino le loro strutture oppressive. Piuttosto non faranno altro che rafforzarle. Non sarebbe ora di dare un appoggio concreto, da parte di tutte noi a queste donne, che certo non mancano di coraggio, ma vivono una situazione da sepolte vive, che ha bisogno di un impegno da parte di tutte noi, per essere portata alla luce. Cercando spunti ed esempi di organizzazione di autodifesa delle donne nella stessa condizione nel mondo ho trovato l’esperienza della GULABI GANG. Fondato da Sampat Pal Devi (scrittrice e attivista originaria di uno dei distretti più poveri dell’Uttar Pradesh India) . Il gruppo conta oggi più di centomila donne che vestite del tradizionale Sari Rosa, armate di bastoni di bambù , organizzano ronde nelle strade dei loro quartieri, ed entrano in azione ogni qualvolta una donna subisce un’ingiustizia, attaccando fisicamente il colpevole. Sono diventate un punto di riferimento, autorevole, per le donne, le quali quando subiscono una violenza si rivolgono a loro piuttosto che alla polizia. La loro fondatrice asserisce che “se un piccolo gruppo di donne, riunitesi nel 2006 con l’obbiettivo di difendere le vittime di ingiustizia, è riuscito a crescere così velocemente e a farsi ascoltare, allora anche altre donne potranno far sentire la loro voce”. Come sarebbe bello poter passare un 8 marzo marciando al fianco di tutte queste donne “invisibili”, prestando loro la nostra voce e il nostro braccio, e magari finire la giornata nel campo di calcio di via Aurelia a Roma, dove si disputa un campionato amatoriale di calcio femminile a otto. Le giocatrici provengono da ogni parte del mondo, in prevalenza Sudamerica. L’evento viene trasmesso dalla web radio Vox Mundi, e la conduttrice radiofonica, in lingua spagnola chiama le calciatrici “MUJERES LUCHADORAS (Donne che Lottano). La loro storia di badanti a Roma è raccontata nel docufilm “LAS LEONAS” (per la regia di Isabel Achaval e Chiara Bondi). “La metafora del film è lampante e immediata, il campo da gioco come la metafora delle loro esistenze, per niente comode, e del riscatto”!
S. O.

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