SPARARE AI CINGHIALI FA SCALPORE. FAR MORIRE I MIGRANTI IN MARE NO!

Riportiamo un’intervista di Marco Bertotto di Medici senza frontiere sugli effetti del nuovo decreto sulle Ong Meloni-Salvini. Sulla ridicola norma della caccia metropolitana al cinghiale si è fatto un gran parlare, sul contenuto criminale delle limitazioni all’opera di salvataggio in mare un totale silenzio
Condividi:

Riportiamo un’intervista di Marco Bertotto di Medici senza frontiere sugli effetti del nuovo decreto sulle Ong Meloni-Salvini. Sulla ridicola norma della caccia metropolitana al cinghiale si è fatto un gran parlare, sul contenuto criminale delle limitazioni all’opera di salvataggio in mare un totale silenzio


 

Ha fatto meno scalpore della licenza di uccidere i cinghiali nei centri abitati, ma il decreto Meloni-Salvini (28/12/2022) colpendo le Organizzazioni non governative (Ong) che soccorrono e salvano i migranti in mare è decisamente criminale. Non uccide animali ma persone colpevoli di sfuggire dalla miseria più nera. 2 i divieti contenuti ma colpiscono come se fossero 20, in quello che ha la pretesa di essere il nuove codice dei soccorsi in mare, in barba alle stesse regole vigenti e alle leggi internazionali.

 


Da La Stampa del 29/12/2022

Così si esprime Marco Bertotto, responsabile per le operazioni in Italia di Medici senza frontiere: «Saremo costretti a lasciare sguarnite le zone di soccorso nel mar Mediterraneo, con un inevitabile aumento del numero dei morti». Perché il punto, in fondo, è «l’assenza di un sistema di soccorso statale, un vuoto che noi in questi anni abbiamo cercato di colmare – spiega Bertotto – Ma se ci rendono il compito più difficile, se non impossibile, chi andrà a salvare vite umane?».
Al governo che accusa le Ong di condurre operazioni spesso fuorilegge Bertotto replica: «È solo la conferma di un alto livello di propaganda su questo tema. Si denuncia un’illegalità che non esiste. Noi di Medici senza frontiere da sempre rispettiamo tutte le norme. A novembre, durante il blocco della nostra “Geo Barents” nel porto di Catania, abbiamo reso pubbliche le comunicazioni con le autorità di coordinamento dei soccorsi, per dimostrare il rispetto di tutte le procedure. Se qualcuno è in difetto, sono proprio le autorità, che non coordinano e spesso nemmeno rispondono».
Quindi, questo nuovo codice è solo un segnale politico? «Direi il frutto di un equivoco: la strumentalizzazione dei soccorsi in mare, associandoli al contrasto al traffico di esseri umani, mentre sono due temi molto diversi. Noi siamo preoccupati del fatto che da gennaio a oggi, nel Mediterraneo centrale, sono morte 1360 persone, in assenza di un sistema centralizzato di soccorsi. Dal 2014 i morti sono 25 mila, questa è la vera emergenza».
Colpa anche vostra, secondo il ministro Piantedosi, perché la presenza delle vostre navi è un fattore di attrazione. «Falso, ormai è dimostrato, ci sono numeri e analisi empiriche, ma si vuole alimentare il sospetto su un nostro presunto ruolo equivoco. Guardi, noi siamo d’accordo sul fatto che non dovrebbe toccare a noi garantire i soccorsi in mare e saremmo i primi a farci da parte, se il governo decidesse di occuparsene con mezzi statali.
D’ora in avanti sarà più complicato intervenire, o no? «Quasi impraticabile. Da una parte, è importante riconoscere l’importanza di assegnare subito un porto sicuro per lo sbarco. Dall’altra, però, lo stiamo vedendo in questi giorni, il porto indicato rischia di essere molto lontano dalla zona Sar, come Livorno o Ravenna. Per arrivare in un porto siciliano bastano 24 ore, anche meno, per raggiungere Ravenna almeno 4 giorni di navigazione. Poi ci sono i tempi per le operazioni di sbarco e il viaggio di ritorno: così una nave rischia di restare esclusa dai soccorsi nel Mediterraneo per 10 giorni». Meno navi impegnate nei salvataggi, è questo l’obiettivo del governo? «Non lo so, ma so che questo sarà il risultato. E lasciare sguarnito il Mediterraneo causerà un aumento dei tassi di mortalità. Immaginate un incidente in autostrada con molti feriti e le ambulanze costrette a portarli in un ospedale di un’altra regione. A un certo punto, non ci saranno più ambulanze».
A meno che il comandante della nave non decida di violare le regole e fare altri salvataggi prima di raggiungere il porto di sbarco. «I comandanti e gli equipaggi si troveranno di fronte a un dilemma etico, tra il dovere di prestare soccorso ad altre barche o gommoni in difficoltà, secondo il diritto del mare, e quello di rispettare le regole, dirigendosi verso il porto dopo aver effettuato il primo salvataggio. E pensare che, fino al 2017, quando il nostro aiuto era ritenuto prezioso e c’era un meccanismo collaudato di soccorso, spesso era la Guardia costiera a chiederci di restare in mare un giorno in più per coprire una zona e sopperire a una loro carenza di mezzi».
Ora, invece, se non fate rotta subito verso il porto assegnato, rischiate il fermo o il sequestro della nave. «Anche le sanzioni seguono la stessa logica, quella di ridurre il numero delle navi delle Ong impegnate nei soccorsi in mare. Se rispetti le regole, magari sei fuori gioco per una settimana, se non le rispetti, rischi di stare fermo due mesi».
Inoltre, dovreste avviare a bordo la valutazione dei requisiti per la richiesta di protezione. Fattibile? «Se ne era parlato già ai tempi del ministro Minniti, mi pare irrealistico ipotizzare un’attività di questo tipo. Del resto, non avviene sulle motovedette della Guardia costiera o della Finanza. Anche secondo l’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) la raccolta delle domande di asilo a bordo delle navi è una procedura contestabile e non c’è alcuna base giuridica per determinare la responsabilità dei Paesi di bandiera. Noi abbiamo già incaricato i nostri legali di approfondire la questione e ci riserviamo di opporci formalmente».

Condividi:

Comments Closed

Comments are closed. You will not be able to post a comment in this post.