ECCO PERCHÈ I CAPITALISTI AGRARI “NON TROVANO MANODOPERA ITALIANA”

Come altrove, anche nel comprensorio cerasicolo del Sud-Est barese preferiscono sfruttare i migranti stagionali, riducendoli peggio degli schiavi regolari, piuttosto che avere a che fare con le braccianti locali e le loro condizioni contrattuali.
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Come altrove, anche nel comprensorio cerasicolo del Sud-Est barese preferiscono sfruttare i migranti stagionali, riducendoli peggio degli schiavi regolari, piuttosto che avere a che fare con le braccianti locali e le loro condizioni contrattuali.


Silenziosi, arrendevoli e ricattabili, rassegnati a lavorare “senza orario”, ad accettare qualsiasi salario, a non farsi pagare i contributi, ad accontentarsi, consapevoli della propria condizione di autentici schiavi salariati, delle peggiori condizioni di lavoro e di vita. Così i capitalisti agrari italiani vogliono i braccianti per farli lavorare nelle loro terre. Che siano italiani o stranieri poco importa, i padroni dei campi sul fronte dello sfruttamento non sono razzisti. Chiunque, bianco o nero, sia disposto a piegare la testa alle loro condizioni è benvenuto! Ovviamente i braccianti migranti, siano essi africani, asiatici o est-europei, sono costretti dal bisogno impellente di lavorare per mandare parte del salario alle loro famiglie che muoiono di fame e quindi i più deboli, divisi e disorganizzati. Invece i braccianti locali, di mestiere oppure occasionali, se giovani, studenti o disoccupati, non sono tanto facilmente disposti ad accettare di piegare troppo la testa e preferiscono cercare altro o, per chi può, starsene a casa, piuttosto che lavorare da schiavi fuori da ogni regola nei frutteti, negli orti, nelle serre o nei vigneti. Perciò i padroni, quando hanno bisogno di forza lavoro e, esaurita la disponibilità di migranti o in loro mancanza, non riescono a disporre affatto o a sufficienza di braccianti locali per le loro necessità, si arrabbiano e urlano che non trovano manodopera, che “gli italiani” sono poltroni e sfaticati e che è tutta colpa del reddito di cittadinanza. E quindi sollecitano i loro referenti politici a suonare la grancassa per colpevolizzare la gente del posto, e i giovani in particolare, accusandoli di non voler lavorare, e per reclamare dal governo di turno la fine del reddito di cittadinanza e, come ha detto Meloni, di ogni forma di “incentivo all’ozio”! Così accade in tutti i territori agricoli dove c’è molta richiesta di forza lavoro per le grandi raccolte di frutta e ortaggi: solo per fare qualche esempio, dalla piana di Gioia Tauro per gli agrumi al Metapontino per fragole, pesche e albicocche, dall’Agro Pontino per carciofi, broccoli e insalate alla Romagna per fragole, nettarine e pere, dal Foggiano per il pomodoro da industria fino a dovunque in Italia per la vendemmia.
Così sta accadendo da due anni anche nel comprensorio cerasicolo del Sud-Est barese per la raccolta delle ciliegie. A Turi e dintorni, in particolare, le braccianti locali lavoravano, per consuetudine figlia di vecchie lotte sociali e per capacità organizzativa di mantenerla in piedi, in larga misura con assunzione secondo contratto e assicurazione per tutti i giorni di lavoro, in modo da poter usufruire delle indennità di malattia, di infortunio e di successiva disoccupazione, il rispetto dell’orario di lavoro (6 ore e 40 minuti, con pausa di 15 minuti per la colazione a metà mattinata), il pagamento del salario secondo tariffa e dell’eventuale straordinario e il versamento dei contributi. Per i capitalisti agrari locali uno zoccolo duro scalfito dall’arrivo graduale di migranti negli ultimi anni e messo in discussione nel 2021 con l’afflusso, per la prima volta consistente, di migranti stagionali che girano l’Italia per fare le raccolte. Tale afflusso, non osteggiato, anzi caldeggiato dai padroni, perché i migranti sono più facilmente sfruttabili rispetto alle braccianti locali, ha compresso in basso salari e condizioni di lavoro e favorito gradualmente l’espulsione dalla raccolta di chi non si adeguava, cioè delle operaie agricole di Turi e dei paesi vicini. Nei campi, negli ultimi due anni, sono prevalsi di gran lunga i braccianti del Marocco o di altri paesi africani, disposti a lavorare, con o senza l’intermediazione di caporali, in condizioni nettamente peggiori rispetto a quelle consuete per le braccianti del posto: “assunzione” senza contratto o con contratti non rispettati, orario continuato dalle 5.00 alle 12.30, senza intervallo, straordinario dalle 13.00 alle 16.00 non pagato come tale, salario variabile dai 4,20 ai 7,50 euro all’ora (al lordo di somme da cedere a eventuali caporali) a seconda del padrone, contributi non versati o versati solo per uno o pochi giorni di lavoro, nessuna assicurazione e indennità di malattia o infortunio (chi è caduto dalle scale, ha detto al pronto soccorso che si è fatto male da solo), nessuna visita medica o vaccinazione antitetanica benché obbligatorie. Parecchi medici hanno chiuso gli occhi su visita medica e vaccinazione, gli ispettori del lavoro sono stati latitanti, i controlli assenti.
Nel 2021 per i braccianti migranti non esisteva alcuna forma di ricovero istituzionale. Hanno alloggiato in tende da campeggio sparpagliate qua e là, arrangiandosi come potevano senza bagni chimici o cucine, tra i rifiuti e i cani randagi, nell’indifferenza generale o sotto la frusta di benpensanti razzisti spaventati da qualche rissa serale fra migranti stanchi, frustrati e ubriachi. Ma se l’anno scorso erano giunti a Turi circa 150 migranti, quest’anno ne sono arrivati quasi 600. La Regione Puglia aveva allestito una foresteria presentata e decantata, all’inaugurazione da parte del presidente regionale Emiliano, come esempio di ordine, integrazione e supporto ai lavoratori stranieri, ma poi rivelatasi misera e insufficiente. In realtà le sue uniche strutture sono gazebo cubici di plastica senza aperture, autentici forni quando la temperatura aumenta (in ognuno quattro braccianti, a dormire su un tavolaccio di legno coperto con cartoni e materassini di fortuna), più 18 docce e 18 bagni chimici. Il campo, realizzato con un finanziamento di 150mila euro della Regione Puglia e gestito da una cooperativa, è riservato a 180 braccianti regolari, cioè dotati di permesso di soggiorno, i quali sono tenuti a pagare un euro di fitto per ogni giorno di permanenza in esso. Questi braccianti sono considerati “fortunati”. Perché il campo è diventato il punto di riferimento e di approdo per più di 400 altri braccianti, accampati attorno in tende da campeggio assiepate e strapiene o in “alloggi” ricavati con vecchie tapparelle avvolgibili o altri materiali di fortuna e là costretti a cucinare e a sopravvivere (solo la buona volontà dei gestori della cooperativa ha permesso a tutti di usufruire a turno di docce e bagni, sia pure nell’immaginabile confusione). I capitalisti agrari sono tenuti, come prevede il contratto di assunzione dei braccianti stagionali, ad assicurare vitto e alloggio, ma nei fatti nessuno ha garantito loro in questi due anni un pezzo di pane e formaggio o quattro muri sbilenchi. Ciò che fanno è altro: essi o i loro caporali arrivano la mattina all’alba, caricano nei furgoncini i braccianti che gli servono, costringendoli, se necessario, per ricavare spazio, anche a fare il viaggio in piedi, e via, per l’intera giornata sotto il sole cocente dei campi; poi il pomeriggio tornano a scaricare la “preziosa” merce umana comprata per quattro soldi. Finché ci sono migranti da sfruttare ignobilmente ai padroni va sempre bene e tacciono soddisfatti. È quando questi scarseggiano e i braccianti locali non sono disposti ad accettare la loro stessa sorte, che i capitalisti agrari vanno in bestia contro gli italiani “impoltroniti” dal reddito di cittadinanza!
L.R.

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