TARANTO, LA MORSELLI MASTICA AMARO

Alle Acciaierie d’Italia gli operai scioperano compatti. La fermata è stata indetta da Fiom, Fim, Uilm e Usb, il malcontento crescente nello stabilimento siderurgico non poteva essere più contenuto. La A.D. ha voluto misurare di persona la forza operaia, ora sa con chi deve fare i conti.
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Alle Acciaierie d’Italia gli operai scioperano compatti. La fermata è stata indetta da Fiom, Fim, Uilm e Usb, il malcontento crescente nello stabilimento siderurgico non poteva essere più contenuto. La A.D. ha voluto misurare di persona la forza operaia, ora sa con chi deve fare i conti.


 

Al complesso siderurgico di Taranto la corda con la quale i padroni stringono al collo gli operai rischia di spezzarsi. Sono anni che i padroni la tirano troppo, sono anni che il malcontento cresce fra gli operai dello stabilimento di Acciaierie d’Italia (ex Ilva), gli operai di Ilva in amministrazione straordinaria e gli operai delle ditte dell’appalto. Sono la durezza della vita in fabbrica e l’incertezza delle prospettive occupazionali che suscitano la rabbia. Alle richieste degli operai i sindacati, Fiom, Fim, Uilm e Usb hanno risposto, dopo anni di simbolici sciopericchi di poche ore, chiamandoli il 6 maggio a uno sciopero di 24 ore. Uno sciopero al quale gli operai hanno aderito in massa, anche organizzando decisi picchetti davanti agli ingressi che hanno impedito ai pochi aspiranti crumiri di entrare. La partecipazione così numerosa e intensa degli operai non solo ha confermato che la loro condizione, indipendentemente che siano produttori diretti, cassintegrati o dell’appalto, peggiora sempre di più, ma ha dimostrato che sono disposti a scioperare e a dare battaglia.
È stato proprio il magma ribollente dell’insofferenza operaia, verso una condizione di lavoro dentro e fuori la fabbrica sempre più compressa dall’interesse dei padroni Mittal ad aumentare sfruttamento e precarietà, a costringere le dirigenze dei quattro sindacati a indire lo sciopero. Dirigenze che hanno la piena responsabilità del peggioramento delle condizioni di vita e lavoro di tutti quegli operai. Sono state esse che, firmando, a settembre del 2018, l’accordo di subentro dei Mittal ai Riva, hanno sia ratificato la cassa integrazione per i 2.600 operai di Ilva in amministrazione straordinaria, sia consentito ai nuovi padroni mani libere nella gestione della forza-lavoro operaia, in cambio della promessa del mantenimento dell’occupazione. Con la studiata assenza di ogni forma di lotta e con la repressione di ogni critica operaia hanno emarginato gli operai cassintegrati in Ilva a.s. e contribuito ad aggravare le condizioni di lavoro e sfruttamento degli operai dell’ex Ilva e delle imprese dell’indotto, messi ripetutamente in cassa integrazione e, come mai avvenuto prima, sorvegliati e puniti con pressioni, sospensioni e licenziamenti disciplinari al minimo accenno di insubordinazione.
Lo sciopero è stato un tentativo dei dirigenti sindacali di puntellare l’ormai instabile controllo organizzativo che esercitano sugli operai e per ricordare ai padroni di non tirare troppo la corda, oltre il limite che essi non riuscirebbero a gestire, e avviare “sane relazioni industriali”, cioè di non estromettere i sindacati dai tavoli decisionali. Qual è stata infatti la loro piattaforma rivendicativa?
Al primo punto “il mancato accordo sulla cigs”: non un rifiuto di principio del continuo ricorso alla cassa integrazione di massa, ma il disappunto per l’assenza di una modulazione congiunta fra Acciaierie d’Italia e sindacati!
Al secondo “la mancata risalita produttiva”: in meno di quattro anni i sindacati hanno costretto gli operai a ingoiare cassa integrazione e peggioramento delle condizioni di lavoro in nome di una crescita produttiva che avrebbe assicurato, nelle parole dei Mittal all’accordo del 2018, la piena occupazione: prima hanno legato gli operai al carro dei padroni, adesso, con la crisi di sovrapproduzione del mercato dell’acciaio esasperata dalla pandemia e dalla guerra, accusano i padroni di non aver fatto la loro parte nel rispettare i patti!
Al terzo “gli investimenti ordinari e straordinari necessari per assicurare una prospettiva credibile di attuazione delle linee di un piano industriale semplicemente presentato e mai condiviso dal sindacato e dai lavoratori”: perché i sindacati non dicono apertamente che la costituzione di Acciaierie d’Italia (formata dall’ArcelorMittal InvestCo Italy e dall’agenzia governativa Invitalia, subentrata nella gestione della fabbrica alla filiale italiana della società franco-lussemburghese ArcelorMittal) è stata una messinscena per trattenere i padroni della multinazionale franco-indiana ed evitare, in cambio del regalo di centinaia di milioni di euro, che andassero via lasciando la patata bollente della gestione della fabbrica nelle mani dello stato italiano e del governo di turno? I Mittal i soldi li hanno avuti, se non li investono è perché preferiscono indirizzarli altrove!
Quarto punto “la questione della sicurezza”: una volta lasciata mano libera ai nuovi padroni, l’aumento dello sfruttamento è diventato ancora più strettamente legato alla diminuzione dei margini di sicurezza, che cosa altro si aspettavano i sindacati?
Per i dirigenti sindacali, che addebitano lo stato di crisi in cui versa lo stabilimento siderurgico all’attuale gestione e ambiscono a dare consigli a Governo e azienda, la preoccupazione maggiore è che “stiamo perdendo un asset strategico dell’industria del nostro Paese”, come ha affermato il segretario nazionale Fiom Cgil Gianni Venturi. Per essi lo sciopero del 6 maggio doveva servire a richiamare Governo e azienda alle loro “responsabilità”. Un ritornello continuo al quale il presidente Draghi, chiamato nei giorni scorsi a “battere un colpo”, aveva già risposto spostando i fondi dalle bonifiche dell’area esterna allo stabilimento siderurgico al sostegno alla produzione, cioè ancora in tasca ai Mittal! Per Acciaierie d’Italia lo sciopero, con la provocatoria presenza dell’amministratore delegato Lucia Morselli davanti alla portineria A dello stabilimento, dove è stata fortemente contestata dagli operai, è stato l’occasione per ribadire che, nei fatti, si sente in una botte di ferro per l’appoggio del Governo e lo spirito di sottomissione dei sindacati. Il suo obiettivo dichiarato è rinsaldare la politica di rapina inaugurata a settembre 2018, spremendo quanto più possibile gli operai necessari e spedendo gli altri in cassa integrazione, in nome del ricatto “cassa o addio”! Stretti fra rapinatori di profitti e governo compiacente, gli operai hanno costretto i funzionari sindacali a organizzare uno sciopero serio per manifestare il proprio malcontento e, nella sua gestione davanti ai cancelli, hanno dato prova di unità e determinazione. Dimostrando che possono mettere sul piatto della bilancia dello scontro in fabbrica tutto il peso della propria forza.
L. R.

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