KARL MARX – “SALARIO, PREZZO E PROFITTO”

Seconda parte dell'intervento letto da Marx alla riunione del 27 giugno 1865 del Consiglio Generale dell'Associazione Internazionale degli Operai. Suddivisa da noi in puntate. <font color=red> Ventesima puntata </font>
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Seconda parte dell’intervento letto da Marx alla riunione del 27 giugno 1865 del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai. Suddivisa da noi in puntate.
Ventesima puntata


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La lotta tra capitale e lavoro e i suoi risultati

1. Dopo aver mostrato che la resistenza periodica opposta dagli operai contro la diminuzione dei salari e gli sforzi che essi fanno di tempo in tempo per avere degli aumenti di salario sono inseparabili dal sistema del salario e dettati dal fatto stesso che il lavoro rientra nella categoria delle merci, e che perciò è soggetto alle leggi che regolano il movimento generale dei prezzi; dopo aver mostrato, in seguito, che un rialzo generale dei salari provocherebbe una caduta del saggio generale del profitto, senza esercitare alcuna influenza sui prezzi medi delle merci o sui loro valori, sorge ora infine la questione di sapere fino a qual punto, in questa lotta incessante tra capitale e lavoro, quest’ultimo ha delle prospettive di successo.
Potrei rispondere con una generalizzazione, e dire che il prezzo di mercato del lavoro, come quello di tutte le altre merci, si adatterà a lungo andare al suo valore; che perciò, malgrado tutti gli alti e bassi, e malgrado tutto ciò che l’operaio possa fare, in ultima analisi egli non riceverà, in media, che il valore del suo lavoro, il quale si risolve nel valore della sua forza-lavoro, determinato a sua volta dal valore degli oggetti d’uso necessari per la sua conservazione e la sua riproduzione, valore che, infine, è regolato dalla quantità di lavoro necessaria per la loro produzione.
Ma vi sono alcune circostanze particolari, che differenziano il valore della forza-lavoro o il valore del lavoro dai valori di tutte le altre merci. Il valore della forza-lavoro è costituito da due elementi, di cui l’uno è unicamente fisico, l’altro storico o sociale. Il suo limite minimo è determinato dall’elemento fisico, il che vuol dire che la classe operaia, per conservarsi e per rinnovarsi, per perpetuare la propria esistenza fisica, deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente necessari per la sua vita e per la sua riproduzione. Il valore di questi oggetti d’uso assolutamente necessari costituisce quindi il limite minimo del valore del lavoro. D’altra parte anche la durata della giornata di lavoro ha il suo limite estremo, quantunque assai elastico. Questo limite estremo è dato dalla forza fisica dell’operaio. Se l’esaurimento giornaliero della sua forza vitale supera un certo limite, questa non può rimettersi ogni giorno in attività. Però, come abbiamo detto, questo limite è molto elastico. Una successione rapida di generazioni deboli e di breve esistenza può servire il mercato del lavoro così bene come una serie di generazioni robuste e di lunga esistenza.
Oltre che da questo elemento puramente fisico, il valore del lavoro è determinato dal tenore di vita tradizionale in ogni paese. Esso non consiste soltanto nella vita fisica, ma nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati educati. Il tenore di vita inglese potrebbe essere abbassato a quello degli irlandesi, il tenore di vita di un contadino tedesco a quello di un contadino della Livonia. L’importanza della parte che assumono, a questo riguardo, la tradizione storica e le abitudini sociali, potete rilevarla dal libro del signor Thornton sulla sovrappopolazione[1], nel quale egli mostra che i salari medi nelle diverse regioni agrarie dell’Inghilterra sono ancora oggi differenti, a seconda delle circostanze più o meno favorevoli nelle quali queste regioni hanno scosso il giogo del servaggio.
Questo elemento storico o sociale, che entra nel valore del lavoro, può aumentare o diminuire, e anche annullarsi, in modo che non rimanga che il limite fisico. Al tempo della guerra antigiacobina, la quale, come usava dire l’incorreggibile divoratore di imposte e di sinecure, il vecchio George Rose[2], fu fatta per salvare i comodi della nostra santissima religione dagli assalti dei francesi miscredenti, gli onesti agrari inglesi – che in una precedente nostra seduta abbiamo trattato con tanto riguardo – ridussero i salari dei lavoratori agricoli persino al di sotto di questo minimo puramente fisico, e fecero aggiungere, mediante le leggi in favore dei poveri, il rimanente necessario per la conservazione fisica della razza. Fu questo un modo brillante per trasformare l’operaio salariato in uno schiavo, e il fiero libero contadino di Shakespeare in un povero.

Se confrontate tra loro i salari normali o i valori del lavoro in diversi Paesi e in diverse epoche storiche dello stesso paese, troverete che il valore del lavoro non è una grandezza fissa, ma una grandezza variabile, anche se si suppone che i valori di tutte le altre merci rimangano costanti.
Lo stesso confronto per quanto riguarda i saggi di mercato del profitto, dimostrerebbe che non solo essi cambiano, ma che cambiano anche i loro saggi medi.
In quanto ai profitti, non esiste nessuna legge che ne determini il minimo. Non possiamo dire qual è il limite ultimo al quale essi possono cadere. E perché non possiamo stabilire questo limite? Perché siamo in condizione di stabilire i salari minimi, ma non quelli massimi. Possiamo soltanto dire che dati i limiti della giornata di lavoro, il massimo del profitto corrisponde al limite fisico minimo dei salari, e che, dati i salari, il massimo del profitto corrisponde a quella estensione della giornata di lavoro che è ancora compatibile con le forze fisiche dell’operaio. Il massimo del profitto è dunque limitato solamente dal minimo fisico dei salari e dal massimo fisico della giornata di lavoro. È chiaro che fra questi due limiti del saggio massimo del profitto è possibile una serie immensa di variazioni. La determinazione del suo livello reale viene decisa soltanto dalla lotta incessante tra capitale e lavoro; in quanto il capitalista cerca costantemente di ridurre i salari al loro limite fisico minimo e di estendere la giornata di lavoro al suo limite fisico massimo, mentre l’operaio esercita costantemente una pressione in senso opposto.
La cosa si riduce alla questione dei rapporti di forza delle parti in lotta. (continua)

  1. Over-population and its Remedy, London 1848.

  2. Statista inglese, conservatore (1744-1818). Fu cancelliere dello scacchiere.

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