Dietro le dichiarazioni infuocate ci sono le solite aperture e coperture dei ministri del governo. Mittal farà quello che vorrà, nessuno straccerà il piano, se non lo faranno direttamente gli operai, ormai la vicenda è chiara.
Muro
contro muro azienda-lavoratori, il governo annaspa nel vuoto. È
stato questo il tenore dei titoli dei resoconti della videoconferenza
fra governo e sindacati sul nuovo piano industriale presentato da
ArcelorMittal (AM) per l’ex Ilva, con la partecipazione dei
ministri dell’Economia, Gualtieri, dello Sviluppo economico,
Patuanelli, del Lavoro, Catalfo, dei rappresentati di Fiom, Fim,
Uilm, Usb e Ugl e dei commissari di Ilva in a.s. Da tale tenore
emerge uno scontro duro fra AM e sindacati, mentre il governo sembra
messo da parte. Eppure le cose non stanno così, interessi e ruoli
per tutti i protagonisti sono ben chiari.
AM ha presentato il
piano che risponde ai suoi interessi attuali e a breve-medio termine
(oltre 3.200 operai via entro il 2020 e il mancato rientro dei 1.600
operai espulsi con l’accordo del 6 settembre 2018, riduzione della
produzione e rinvio degli investimenti). Se non passa è pronta ad
andare via.
Il governo annaspa? No, i governi Conte 1 e 2 hanno
avuto sempre le idee chiare sull’ex Ilva. Pur di trovare un
compratore dell’Ilva il Conte 1 ha sacrificato 1.600 operai. Poi,
quando l’M5S ha tentato di far cadere lo scudo penale per
recuperare voti, compresi quelli (molti) persi a Taranto e in Puglia,
il Conte 2, per paura di subire gli effetti sociali della fuga di AM,
ha ceduto su tutta la linea alle sue pretese. Infatti, con l’accordo
del 4 marzo, firmato senza la partecipazione dei sindacati, aveva
chiuso il contenzioso con AM che otteneva, fra l’altro, la
possibilità di ricorso “temporaneo” alla cassa integrazione, con
l’impegno di mantenere a regime (entro il 2025) i 10.700 operai
occupati attualmente, di cui 8.200 a Taranto, e l’assoluto silenzio
sui 1.600 operai in carico a Ilva a.s., non più da riassorbire entro
il 2023 ma scaricati del tutto.
L’aggravamento della crisi
economica generale e il calo della domanda dell’acciaio hanno però
reso urgente per AM un nuovo piano. Solo in apparenza nuovo. Già a
settembre
2019 l’ad Morselli, appena insediata, aveva chiesto circa 5.000
esuberi. Gli stessi numeri che prospetta ora. AM non si è mai
spostata da quei numeri. La pandemia
da Covid-19 non c’entra nulla, è solo uno strumento di pressione
in più.
Eppure
nella discussione del “nuovo” piano, i tre ministri, scremando
alcune reboanti dichiarazioni contrarie, hanno lasciato evidenti
porte aperte su numero di esuberi e cassa integrazione, sostenendo
che per essi bisogna ripartire dall’accordo di marzo e dicendosi
“consapevoli
che è necessario introdurre l’impatto della Covid-19 dentro la
traiettoria previsionale, ma parliamo di una cosa molto distante da
quella presentata”.
Non una parola, però, sulla questione salariale, mentre è chiaro a
tutti che gli operai in cassa integrazione perdono al mese quasi
400-500 euro.
E i sindacati? Fiom, Fim, Uilm e Usb non
riconoscono né l’accordo firmato il 4 marzo fra governo Conte e
AM, né il piano industriale appena presentato dall’ad Morselli.
Affermano di riconoscere solo l’accordo firmato il 6 settembre 2018
“perché
garantiva la piena occupazione”.
Piena occupazione? Una bugia colossale che merita di essere smentita.
Altro che muro contro muro!
Il piano occupazionale previsto
dall’accordo del 6 settembre 2018, imposto dal governo Lega-M5S e
accettato pienamente da Fiom-Fim-Uilm e con qualche distinguo da Usb,
lasciava ad AM libertà di manovra nella gestione della forza lavoro
operaia. AM prima ha espulso dal ciclo produttivo e licenziato di
fatto 6.000 operai su oltre 14.000 (attraverso la cassa integrazione
straordinaria a zero ore, nonché prepensionamenti ed esodi volontari
anticipati e incentivati), scegliendo di buttare fuori chi nella
gestione Ilva aveva dato più fastidio. Adesso Fim, Fiom e Uilm hanno
elaborato una piattaforma di richieste al governo, compreso il no ai
licenziamenti, la ripresa di manutenzioni, impianti attualmente
fermi, attività del piano ambientale, introduzione della Valutazione
di impatto sanitario preventivo, la legge speciale per Taranto. Per
l’Usb “non
si può assolutamente discutere con chi chiede risorse pubbliche per
spadroneggiare a Taranto.
Noi
crediamo che quella fabbrica debba essere gestita direttamente dallo
Stato con la nazionalizzazione”.
Tutto in nome di tavoli governativi di crisi con o senza AM, nulla in
termini di lotta degli operai, anzi tutti a ripetere allarmati che
“negli
stabilimenti la situazione è esplosiva: non è più gestibile in
questo modo sul piano delle relazioni industriali”.
E
gli operai? gli operai hanno faticosamente cominciato a discutere,
confrontarsi tra loro e cercare una strada, che passa,
inevitabilmente, per la critica dura ai sindacati. Al presidio
davanti alla direzione dello stabilimento di Taranto, in concomitanza
con lo sciopero e l’incontro in videoconferenza, alcuni operai
hanno strappato le bandiere dei sindacati, accusandoli
di avere “dimenticato”
gli operai
in
cassa integrazione da mesi e quelli rimasti in capo all’Ilva in
a.s. Non hanno dimenticato che, quando a fine ottobre 2018 fu loro
comunicato via sms chi sarebbe passato con AM e chi, invece, sarebbe
rimasto con Ilva in a.s. in cassa integrazione a zero ore, né Fiom,
Fim, Uilm, né Usb, né Ugl organizzarono una lotta congiunta fra
operai riassunti e operai esclusi, avallando così la loro
divisione.
L.R.
Comments Closed