La domanda è la solita”volete tornare a lavorare o fare la fame a casa? La risposta non può che essere “meglio tornare a lavorare”
Alla borghesia
piace darsi le arie da democratica, naturalmente se ciò non le
arreca alcuno svantaggio e anzi le garantisce più di un beneficio,
in termini sia di immagine sia, e soprattutto, di concreto interesse
economico. In un’industria veneta il padrone ha sottoposto a
referendum fra gli operai la decisione di riprendere o meno il lavoro
dopo alcuni giorni di forzata chiusura per decreto Coronavirus. Il
titolare gongolava in un servizio televisivo nel raccontare che oltre
il 95% degli operai aveva risposto in maniera affermativa. Sapeva di
aver vinto facile e tra il beffardo e lo spocchioso aggiungeva che
“eh sì, gli operai hanno paura di perdere il lavoro e con esso lo
stipendio per vivere e mantenere la propria famiglia. Sanno che la
fabbrica non può restare chiusa, che abbiamo impegni da soddisfare,
commesse da consegnare. Li ho ringraziati personalmente, siamo una
grande famiglia e lunedì riprendiamo tutti insieme”.
La
presunta unità di intenti fra imprenditore e lavoratori (formula
“moderna” e neutra per nascondere la differenza di classe fra
padrone e operai) è una moneta spesa molto in queste settimane,
specchio di una pretestuosa concordia di intenti spacciata come
chiave per affrontare e risolvere appunto “tutti insieme” la
crisi economica provocata dall’epidemia da Coronavirus.
Sulla
falsariga dell’immaginabile quesito alla base del citato
referendum, nei telegiornali e in programmi dedicati all’emergenza
sanitaria e in particolare alla cosiddetta “fase 2” a numerosi
operai, da nord a sud dell’Italia, davanti alle fabbriche, in
procinto di rientrare sulle linee di produzione, ipocriti giornalisti
ben ammaestrati hanno posto domande retoriche come:“Era ormai tempo
di rientrare, vero?”; “Si può stare in casa pensando alle
macchine ferme in fabbrica?”; oppure “L’unità della nazione di
fronte alla minaccia del virus nasce anche dall’unità di obiettivi
sul posto di lavoro?”; e così via. Domande davanti alle quali gli
operai hanno invariabilmente abbozzato un sorriso, alzato le spalle e
risposto: “Siamo qua perché abbiamo bisogno di lavorare!”.
Il
tono enfatico del padrone veneto e dei giornalisti prezzolati e le
parole semplici e disarmanti degli operai testimoniano, pur da
versanti contrapposti, che, nei fatti, non c’è alcun ardore da
parte degli operai di ritornare al lavoro, nessuna mobilitazione per
“salvare la patria” o “l’economia nazionale” o gli spiccioli
interessi dell’uno o dell’altro padrone! Molto più prosaicamente
gli operai sanno bene che non possono vivere senza lavorare, perché
con la cassa integrazione o un altro sussidio farebbero una fatica
enorme a sopravvivere o non ci riuscirebbero. In condizioni normali
solo per non morire di fame accettano di faticare in una fabbrica,
pur sapendo di correre il rischio di morire, infortunarsi, ammalarsi.
In condizioni di epidemia da Covid-19 sanno bene che per essi si
aggiunge un rischio mortale in più, che i padroni sono ancora più
incarogniti, che il rischio di finire sulla strada è più vicino, e
tacciono. Molti operai sopportano con pazienza e rassegnazione perché
oggi non sanno trovare una diversa risposta. Ma fino a quando la
pazienza rimarrà pazienza e la rassegnazione resterà rassegnazione
e non si tramuteranno in rabbia organizzata?
Nell’Italia in
stato d’assedio e militarizzata viene criminalizzato chi da solo va
in un campo o su una spiaggia, ma nessuno spiegamento di forze
dell’ordine viene organizzato per andare a “disperdere” gli
assembramenti consentiti e legalizzati dei moderni schiavi operai
nelle fabbriche. Solo dove gli operai hanno incrociato le braccia,
scioperato, protestato, là si sono affacciati i tutori dell’ordine
borghese, ma i giornalisti con discrezione li hanno ignorati per non
farli diventare un esempio.
L.R.
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