SE QUESTI BRACCIANTI SONO UOMINI

Sono anni che si denunciano le condizioni dei braccianti emigrati al lavoro nei campi. Nulla cambia, la società perbenista fa finta di niente, correranno ai ripari solo quando una rivolta di questi uomini metterà loro paura, ma sarà troppo tardi I braccianti stranieri che lavorano nei campi italiani per le grandi raccolte, per lo più africani, ma anche slavi, asiatici, ecc., non hanno alloggio. Non hanno una casa, per quanto povera e spoglia, non hanno nemmeno una stanza decente, in cui non faccia freddo, non piova dentro, per viverci, riposarvici, dormirci, tranquilli, sicuri, al caldo, all’asciutto. No, ai braccianti […]
Condividi:

Sono anni che si denunciano le condizioni dei braccianti emigrati al lavoro nei campi. Nulla cambia, la società perbenista fa finta di niente, correranno ai ripari solo quando una rivolta di questi uomini metterà loro paura, ma sarà troppo tardi

I braccianti stranieri che lavorano nei campi italiani per le grandi raccolte, per lo più africani, ma anche slavi, asiatici, ecc., non hanno alloggio. Non hanno una casa, per quanto povera e spoglia, non hanno nemmeno una stanza decente, in cui non faccia freddo, non piova dentro, per viverci, riposarvici, dormirci, tranquilli, sicuri, al caldo, all’asciutto.

No, ai braccianti che vengono da così lontano, questo non è dato. Quello che a tutti, per se stessi, appare come il più normale dei bisogni umani, il più evidente dei diritti di un uomo, un luogo sicuro dove riposare, a essi viene negato dall’insolente superbia, dall’ostinata arroganza dei padroni che li sfruttano nei campi e dall’acquiescente indifferenza di una società complice.

Dovunque ci siano braccianti stranieri sorgono accampamenti di fortuna, tende improvvisate, baracche di legno, cartone e lamiera, oppure si animano rifugi in luoghi chiusi, sovraffollati e scarsamente arieggiati e illuminati, comunque ricoveri indegni di esseri umani, autentiche tane. Dove arrangiarsi è un obbligo con i pochi mezzi disponibili, dove si vive gli uni sugli altri, alla rinfusa, all’addiaccio o addirittura al gelo, dove le condizioni di sfruttamento nei campi superano limiti di fatica che altrove sarebbero inconcepibili e invalicabili, dove le condizioni di vita vengono segnate dalla denutrizione o dalla cattiva nutrizione e dalla scarsa igiene, là sorgono le malattie, tante e soprattutto le infettive e quelle dell’apparato respiratorio (indagini mediche hanno verificato che sono le più diffuse fra i braccianti), là si sviluppano gli incendi (a Borgo Mezzanone vicino Foggia, a San Ferdinando nel Reggino e altrove), là si muore, per la fatica nei campi come per le fiamme nei tuguri improvvisati.

Viene alla mente, e l’accostamento non è forzato, la poesia “Se questo è un uomo” in cui Primo Levi denunciava non solo la condizione degli internati nei campi di concentramento nazisti ma anche l’indifferenza di chi, pur sapendo, girava e gira la testa dall’altra parte: Voi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case,/voi che trovate tornando a sera/il cibo caldo e visi amici:/considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/che non conosce pace/che lotta per mezzo pane/che muore per un sì o per un no. (…)

Consideriamo, dunque, se questi braccianti sono uomini, e uomini sono, ma ridotti alla condizione di schiavitù, di schiavi salariati con un salario da fame, di individui, regolari o clandestini, dei quali conta, per i padroni, soltanto la forza delle braccia.

Della questione degli alloggi i padroni se ne lavano le mani. Il Comitato Agricoltori di Capitanata, sorto nel Foggiano in opposizione alla legge sul caporalato (considerata troppo repressiva nei confronti dei “datori di lavoro”), in un “Manifesto sul lavoro in agricoltura” plaude per finta alla legge sul caporalato, alla legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e a tutte le attività di controllo, ma poi sostiene apertamente che non accetta che tutti i fabbisogni dei lavoratori debbano gravare sul datore di lavoro: controllo validità e veridicità dei documenti di identità, alloggi e loro mantenimento in condizioni igieniche idonee, controllo mezzi di trasporto.

E siccome fra i padroni i più spietati spesso vengono seguiti dagli altri, le organizzazioni ufficiali degli agricoltori, Coldiretti, Confagricoltura, Cia Agricoltori Italiani e Copagri, le quali prima tentennavano fra aperto menefreghismo e spirito caritatevole con richiesta agli enti pubblici di allestire centri di accoglienza, si sono subito accodate a chi ha alzato di più la voce per non perdere il consenso dei loro iscritti.

Dovunque è, con sfumature diverse, la stessa lugubre storia. In Basilicata ai primi dello scorso settembre le organizzazioni agricole Coldiretti e Cia hanno reclamato l’avvio del Centro di accoglienza ubicato presso l’ex tabacchificio di Palazzo San Gervasio (Pz) per i lavoratori migranti stagionali addetti alla raccolta del pomodoro. In realtà lo hanno fatto per spirito di facciata e per nascondere la vergogna disumana di persone buttate a dormire sulla terra, nel fango. Lo hanno detto quando la campagna del pomodoro era già iniziata da tempo, poi non è accaduto più nulla.

Neppure è sperabile, per i braccianti stranieri, che venga un maggiore aiuto dagli enti pubblici, anch’essi oscillanti fra alzate di spalle e operazioni di facciata. Centri di accoglienza o non ce ne sono o aprono in ritardo sui bisogni dei braccianti e, quando ci sono, o diventano dei ghetti dove si ammassano centinaia di persone oppure rimangono inutilizzati. Ad esempio in Puglia lo scorso luglio il presidente Emiliano ha inaugurato una foresteria per 400 lavoratori immigrati a San Severo (Fg) con tanto di banda, spumante e comizio, ma i moduli abitativi sono rimasti pressoché vuoti perché troppo lontani dai campi di pomodoro da industria.

Di fatto gli operai agricoli migranti, per trovare un ricovero, possono contare o sulla propria “inventiva” o sulla buona volontà di qualche rara associazione benefica. E non sono mancati i casi in cui braccianti, in cerca di manufatti per tirare su un rifugio, sono stati ammazzati, come è accaduto il 2 giugno 2018 a Soumayla Sacko, 29 anni, morto per una fucilata a una tempia mentre, a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, cercava lamiere in una fabbrica di mattoni abbandonata.

Tutto questo non è casuale. Mantenere i braccianti immigrati in una condizione di massima precarietà, non solo sotto il giogo dei caporali e con un salario stracciato, ma anche nell’indigenza abitativa, serve per ricattarli meglio, per costringerli di più a piegare la testa e accettare tutto. Tanto, se poi l’alzano, la testa, ci pensano, in forme diverse ma tutte conformi allo stesso scopo, prima i caporali e i sindacalisti compiacenti, poi le forze dell’ordine, a fargliela abbassare di nuovo, ad esempio sgomberando con le ruspe le baraccopoli. Nell’indifferenza perbenista di una società complice.

L.R.

Condividi:

Comments Closed

Comments are closed. You will not be able to post a comment in this post.