Siria, morire di fame a Damasco a un mese di vita. Per propaganda

 di Shady Hamadi E’ morta di fame a Damasco, aveva solo un mese di vita e si chiamava Sahar Dofdaa. E’ l’ennesimo simbolo di una guerra dimenticata e che a breve cadrà nel dimenticatoio, digitale e collettivo. Potrebbe finire qui questo post. Cosa ci sarebbe d’aggiungere? Forse che Sahar era nata nel villaggio di Hamuriya, nella Ghouta, un’area assediata da anni dalle truppe fedeli al governo di Damasco e controllata da un gruppo fondamentalista, l’esercito dell’Islam che tiene in scatto i suoi abitanti. Questa situazione di immobilismo, come lo sono tutti gli assedi che durano anni – come lo […]
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E’ morta di fame a Damasco, aveva solo un mese di vita e si chiamava Sahar Dofdaa. E’ l’ennesimo simbolo di una guerra dimenticata e che a breve cadrà nel dimenticatoio, digitale e collettivo. Potrebbe finire qui questo post. Cosa ci sarebbe d’aggiungere? Forse che Sahar era nata nel villaggio di Hamuriya, nella Ghouta, un’area assediata da anni dalle truppe fedeli al governo di Damasco e controllata da un gruppo fondamentalista, l’esercito dell’Islam che tiene in scatto i suoi abitanti. Questa situazione di immobilismo, come lo sono tutti gli assedi che durano anni – come lo furono quello di Aleppo, di Madaya e altre –, non ha fatto altro che rendere precarie le condizioni di vita dei civili.

Yahya Abu Yahya, un medico siriano che opera nella Ghouta, ha dichiarato al giornale inglese Guardian che sono almeno 68 i casi di grave malnutrizione, come quello di Sahar: nata da una madre che non aveva le forze per nutrirla. Un destino che pare colpire altre migliaia di bambini. Su oltre 9.700 bambini esaminati, spiega il dottore al giornale inglese, oltre 80 soffrono di malnutrizione, 200 di malnutrizione moderata e su 4mila si rilevano carenze nutrizionali. Sono tutti siriani, uguali a quelli che sono seduti ai tavoli nel centro di Damasco, fra i quartieri di Bab Touma e il Muhajireen, a meno di una decina di km in linea d’aria da quel buco nero che è diventata la Ghouta: un tempo fiorente periferia di una città che sembrava eterna.

Allora c’è da chiedersi, da siriani, se chi è seduto alla caffetteria Nofara, dietro la grande moschea di Damasco, non sa quello che accade o trova semplicemente un modo per ignorare tutto, proseguendo in una vita che si deve abituare alla condizione della guerra? Per altri, che non hanno nazionalità, quello che accade nella Ghouta, la morte di Sahar, è comprensibile e decifrabile in una parola: propaganda.

Seguono quindi la tesi del complotto, di una Siria che può essere salvata dai terroristi solo da Assad. Tutti sono terroristi, anche quelle persone rinchiuse nella Ghouta. Meritano la morte. Poi ci siamo noi, dall’altra parte del mediterraneo, incapaci di pensare che le nostre paure possono trovare risoluzione nella felicità degli altri, nel rispetto dei diritti umani dei siriani, nella fine della guerra. Ma siamo incapaci di usare la libertà che abbiamo per chiedere la libertà degli altri. E’ un dato di fatto ma è perfino inutile ribadirlo. Meglio rimanere in silenzio.

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