LE FORME PARTITO

Redazione di Operai contro, Su Operai Contro viene spesso richiamata la necessità di un partito operaio. Il periodo di crisi non può che essere fecondo a tal fine, e in effetti le varie classi sociali, la piccola borghesia in particolare, sono in movimento e si danno, o cercano di darsi, nuove forme politiche. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti in Europa ed è anche momento di studio e dibattito. A dire il vero sono proprio gli operai al riguardo i più arretrati, almeno in Italia. La borghesia, anche quella più rovinata dalla crisi e che pertanto scalpita […]
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Redazione di Operai contro,

Su Operai Contro viene spesso richiamata la necessità di un partito operaio. Il periodo di crisi non può che essere fecondo a tal fine, e in effetti le varie classi sociali, la piccola borghesia in particolare, sono in movimento e si danno, o cercano di darsi, nuove forme politiche. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti in Europa ed è anche momento di studio e dibattito.

A dire il vero sono proprio gli operai al riguardo i più arretrati, almeno in Italia. La borghesia, anche quella più rovinata dalla crisi e che pertanto scalpita sulla scena politica, ha più strumenti, economici e intellettuali; sa evidentemente usare meglio i media e gli strumenti di propaganda a proprio vantaggio. Probabilmente gli elementi piccolo borghesi di nuova generazione, che non trovano oggi soddisfazione nei partiti di più antica storia, ma che ne potevano essere la naturale continuazione se non ci fosse stata la crisi, diventano artefici e strumenti umani delle nuove forme politiche. Gli operai con la loro subalternità a questi soggetti nelle organizzazioni sindacali e nei partiti, ne pagano ora le conseguenze. Anche nei flebili tentativi di difesa dagli attacchi spesso mortali da parte dei padroni che chiudono fabbriche, o li costringono ad accettare condizioni lavorative peggiori.

Ma lasciamoci questi piagnistei alle spalle: gli operai che non hanno intenzione di piegarsi a nessun interesse “superiore” di questa società, ovvero non sono più disposti alla continuazione di una loro esistenza come schiavi, come unica e possibile per la loro classe; gli operai che giungono a riconoscersi come classe avversa e mortale a questo modo di produzione, si meritano ben altro. Val la pena pertanto, se davvero siamo interessati al partito operaio, cominciare a ragionare sulle “forme partito”, ai significativi cambiamenti in corso rispetto a quelle del passato.

Un primo spunto ci viene dal corriere del 5 aprile, in cui Giuseppe Bedeschi analizza la struttura del PD di Renzi o di Forza Italia di Berlusconi confrontandoli con i partiti italiani del dopoguerra. A sua volta riprende l’analisi di Mauro Calise, La democrazia del leader (Laterza).

Le attuali formazioni politiche si incardinerebbero nel leader (o al più nel suo entourage), sarebbero in pratica svuotate dalla partecipazione degli iscritti. L’apparato stesso dei partiti perde di importanza rispetto al ruolo della leadership. Il confronto è con il Pci e la Dc degli anni Settanta in cui contava principalmente la loro radicalizzazione sul territorio fondata su una capillarità delle sezioni. Il Pci aveva «12.500 sezioni (che erano organismi territoriali), e la Dc aveva sezioni in 97 Comuni su 100». Non che non ci fossero anche allora i capi di partito. Riconosce Bedeschi, infatti, che i Togliatti e i De Gasperi «elaboravano le strategie , e davano loro corpo con iniziative politiche», ma era poi la struttura territoriale del partito, i suoi militanti, i suoi quadri, a rendere fattiva quella politica. Bedeschi aggiunge, inoltre, che il ceto politico di queste organizzazioni proveniva dai sindacati cattolici e altre organizzazioni cattoliche per la Dc, mentre «il Pci attingeva dal sindacato (che non era certo formato, nella sua maggioranza, da pensionati) e dal movimento cooperativo».

Tutto diverso, dunque, dai partiti odierni in cui «i partiti sono, come si dice,«liquidi», cioè sempre più leggeri … e la loro incidenza nella vita sociale e politica è sempre più determinata dal ruolo e dalle iniziative dei leader». Un po’ preoccupato da questo svuotamento della politica di partecipanti diretti, non confessandosi che l’altra faccia del fenomeno è proprio la fortissima astensione degli strati bassi della società nelle elezioni, Bedeschi conclude tranquillizzando i suoi lettori borghesi che la “onnipotenza” dei leader che ne deriverebbe da questo quadro viene tuttavia tamponata dal “tribunale della pubblica opinione, giornali, canali televisivi, blog, ecc”: «Ma questa è, appunto, la nostra democrazia: la democrazia dei cittadini-elettori, la quale decide anche il destino dei leader».

Dunque, ricapitoliamo. I vecchi partiti di massa non ci sono più, sezioni, militanti, persino i quadri hanno lasciato il posto a forme più snelle, “leggere” di partiti. La trasmissione di quella che prima era la linea del partito passa attraverso il suo leader direttamente agli elettori per mezzo delle sue sparate in televisione. Gli elettori a questo punto le misurano direttamente, cercando attraverso i mezzi di informazione e la rete di passarle al vaglio e pertanto poi eleggono prima un Berlusconi, poi un Renzi. Questo il pensiero di Bedeschi e del Corriere per quanto almeno riguarda il Pd e Forza Italia, e con piccole varianti la Lega, anch’essa passata da una forma più tradizionale di partito sotto Bossi (con i suoi riti dell’ampolla del Po o il suo radicamento territoriale al Nord) a quella anch’essa meno tradizionale di Salvini (con una preponderante divulgazione televisiva delle sue sparate). Diversa la situazione per il movimento 5 stelle, il quale già dal nome rivoluziona la forma partito chiamandosi “movimento” e vedendo nei partiti tradizionali buona parte del degrado della società e della crisi stessa. Ma di questo ne parleremo in una prossima puntata.

R.P.

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