I civili uccisi dalle bombe contano di più se sono europei?

Caro Operai Contro, un anno di bombe sullo Yemen, con seimila morti di cui mille bambini, hanno avuto molto meno spazio in un anno in televisione e sui giornali, dei 36 morti delle bombe di Bruxelles in pochi giorni. I civili uccisi dalle bombe contano di più se sono europei? Anche il Corriere della sera del 26 marzo, titola in un rettangolino “Yemen: la guerra dimenticata”, per poi rimandare ad un ampio servizio nella versione online che qui allego. Saluti da un lettore.   L’elenco degli orrori Oltre seimila morti, 2,5 milioni di sfollati, abusi, crimini di guerra. Ospedali, […]
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Caro Operai Contro,

un anno di bombe sullo Yemen, con seimila morti di cui mille bambini, hanno avuto molto meno spazio in un anno in televisione e sui giornali, dei 36 morti delle bombe di Bruxelles in pochi giorni.

I civili uccisi dalle bombe contano di più se sono europei?

Anche il Corriere della sera del 26 marzo, titola in un rettangolino “Yemen: la guerra dimenticata”, per poi rimandare ad un ampio servizio nella versione online che qui allego.

Saluti da un lettore.

 

L’elenco degli orrori

Oltre seimila morti, 2,5 milioni di sfollati, abusi, crimini di guerra. Ospedali, scuole, fabbriche e campi profughi bombardati. Oltre 1.000 bambini uccisi nei raid e oltre 740 morti nei combattimenti. È lungo l’elenco dell’orrore in Yemen. Da un anno esatto nessun obiettivo civile viene risparmiato. «Una catastrofe umanitaria senza precedenti», ha scandito di recente Stephen O’Brien, vice segretario per gli affari umanitari delle Nazioni Unite.

Eppure, anche oggi, nei giorni in cui cade l’anniversario dell’inizio del conflitto non sono in molti a dedicare spazio e attenzione a questa carneficina. Non importa che lo Yemen occupi una posizione strategica controllando una parte dello stretto di Bab el Mandeb, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden da cui transitano le petroliere. Non influenza il dibattito pubblico la presenza, dentro i confini di questo Paese, del santuario di Aqap, la più potente fazione di Al Qaeda, fonte di instabilità in tutto il mondo esattamente quanto Isis. Non interessa nemmeno che su questo terreno di scontro si giochi una partita delicatissima tra due potenze come l’Iran e Arabia Saudita. O, ancora, che il Pil yemenita, considerato già il più povero del Medio Oriente prima dell’inizio della guerra, sia diminuito nell’ultimo anno del 35 per cento e che in dodici mesi di combattimenti un quarto delle aziende abbia chiuso. Questa guerra dimenticata, pur consumando giorno dopo giorno una culla della civiltà, non sembra smuovere le nostre coscienze.

Il conflitto ufficialmente è iniziato tra il 25 e il 26 marzo del 2015. Da quella notte gli aerei dell’Arabia Saudita, sostenuti da una coalizione di altri otto Paesi arabi, bombardano senza sosta le postazioni dei ribelli sciiti houthi, arroccati nel sud del Paese. Come denuncia da tempo Amnesty International, i raid colpiscono in modo indiscriminato la popolazione. La vita oggi in Yemen è impossibile: acqua corrente ed elettricità scarseggiano, il cibo non si trova, il prezzo della farina è quadruplicato. «I miei figli percorrono ogni notte chilometri per arrivare alle sorgenti. Camminano nel buio per non essere colpiti dai raid», ha raccontato un testimone di nome Mohammed alle Nazioni Unite. «Ogni giorno vado al lavoro ma vivo nell’angoscia per la mia famiglia quando sento il rombo degli aerei arrivare», ha spiegato Abdullah. Come Abudllah e Mohammed, l’82 per cento degli yemeniti ha bisogno di assistenza umanitaria per poter sopravvivere.

Per comprendere le cause del conflitto bisogna però andare indietro negli anni. Dopo la breve primavera yemenita, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, il presidente Ali Abdullah Saleh (alla guida del Paese da oltre trent’anni) ha lasciato il potere. La sua caduta, avvenuta su pressione dei Paesi del Golfo e in particolar modo dell’Arabia Saudita, ha ridato vita alle forze centrifughe del sud del Paese. Mentre le Primavere arabe infiammavano tutto il Medio Oriente, i ribelli houthi sono tornati sulla scena.

Il nuovo presidente Abdel Rabbo Monsour Hadi, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Egitto oltre che dai Paesi del Golfo, non è mai riuscito a prendere del tutto il controllo del Paese né ad avviare le riforme promesse. Dal 2011 in poi gli houthi, appoggiati dall’Iran e frustrati nelle loro inascoltate richieste di autonomia, hanno dato il via a una serie di proteste per chiedere la sua cacciata. Questo stato di instabilità ha portato l’Arabia Saudita a optare per l’intervento militare, mettendosi alla guida di una coalizione guidata dagli Stati del Golfo, dalla Giordania, dall’Egitto, dal Marocco e dal Sudan e mettendosi alla guida di una coalizione di cui fanno parte gli Stati del Golfo, la Giordania, l’Egitto, il Marocco e il Sudan . Inoltre il presidente Hadi nel marzo scorso ha dovuto abbandonare la capitale Sana’a, caduta sotto il controllo dei ribelli. E ora si trova ad Aden – da cui gli houthi si sono ritirati – nel Sud del Paese dove imperversano diverse milizie.

A far sperare in una tregua, per il momento, sono solo i fragilissimi negoziati che potrebbero portare a un cessate il fuoco, il 10 aprile e ai colloqui di pace che dovrebbero iniziare il 18 in Kuwait. Ma è chiaro che finché nessuno metterà un freno agli appetiti delle potenze regionali (l’Iran da una parte e i sauditi dall’altra, sostenuti e armati tra l’altro dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna) e alla presenza di Al Qaeda nella regione, sarà difficile per lo Yemen iniziare una vera ricostruzione uscendo dall’elenco, ormai sempre più lungo, degli Stati falliti.

Marta Serafini

Gli appetiti di Riad

L’ostilità tra l’Arabia Saudita, il Paese più ricco del Golfo, e lo Yemen, il più povero, non è nuova. Nella prima Guerra del Golfo (1990-1991), più di 800.000 yemeniti che lavoravano in Arabia e in Kuwait furono costretti ad andarsene (e la monarchia saudita sospese l’assistenza economica ai vicini fino al 2000) perché Sana’a non aveva appoggiato l’intervento contro Saddam Hussein in Iraq. Quando gli houthi, vecchi nemici del Regno, presero il controllo della capitale yemenita nel 2014, l’ostilità si riaccese, e i sauditi intervennero militarmente contro i ribelli che avevano attaccato una pattuglia saudita al confine.

Ma la guerra in Yemen è oggi, insieme a quella in Siria, lo specchio di uno scontro più grande: la sfida per il controllo regionale tra la monarchia sunnita e l’Iran sciita. Riad è ossessionata dall’Iran, da quella che considera l’aspirazione di Teheran a creare un nuovo Impero Persiano, ed è determinata a riaffermare il proprio ruolo di leadership nel mondo musulmano sunnita. Nonostante alcune riserve occidentali sull’effettiva portata dell’appoggio iraniano agli houthi in Yemen, Riad non ha dubbi che il rivale voglia usarli come milizia ai propri confini proprio come ha fatto con altri gruppi in Libano, Iraq, Siria. L’esitazione degli alleati americani a intervenire nella regione, il passaggio dell’Iraq nell’orbita sciita e – ultima goccia – la riabilitazione di Teheran attraverso l’accordo nucleare hanno esasperato le ansie della monarchia saudita, portandola alla decisione inconsueta di attuare una politica estera assai più interventista e meno cauta che in passato.

Si tratta di un cambiamento di strategia, legato anche alla nuova leadership giovane di Riad. Per la prima volta il potere sta passando alla seconda generazione di principi. Il Re Salman, nel succedere al fratello Abdullah nel gennaio 2015, ha scelto come vice-erede al trono il prediletto figlio trentenne Mohammad Bin Salman che ha oscurato il potere del cugino Mohammed Bin Nayaf, 56 anni, benché sia quest’ultimo sia al momento il futuro re. Mohammed Bin Salman si gioca tutto sui due grandi dossier affidatigli dal padre: la guerra in Yemen e le riforme economiche. Spesso fotografato nella «war room», è proprio il giovane principe – che è anche ministro della Difesa – a guidare l’intervento in Yemen. Ma se inizialmente flettere i muscoli contro i piani espansionistici iraniani ha accresciuto la sua popolarità, col passare del tempo è diventato chiaro che, nonostante la netta superiorità militare saudita, la “Tempesta decisiva” – questo il nome dell’operazione – non sta portando a una vittoria rapida e decisiva che dia una lezione a Teheran. La coalizione guidata dal Regno si è trovata intrappolata in una guerra lunga, complicata e costosa mentre l’Onu ha accusato apertamente Riad per le vittime civili dei raid aerei. Mohammed Bin Salman, che è anche il responsabile delle riforme finanziarie del Regno, è ora criticato da alcuni anche all’interno della corte reale perché la guerra in Yemen costa da sola sei miliardi al mese (e poi ci saranno i costi della ricostruzione), e perché i jihadisti hanno sfruttato il conflitto per estendere la propria presenza nella zona. C’è poi chi sostiene che la campagna in Yemen ha anche rafforzato l’ostilità della maggioranza sunnita nei confronti della minoranza sciita locale, già marginalizzata. E chi dice che l’alleanza con il clero wahhabita – che pure legittima la monarchia saudita come custode dei luoghi sacri dell’Islam – è un’arma a doppio taglio sempre più pericolosa, in quanto nutre l’ideologia jihadista e impedisce riforme sociali ormai necessarie. Tutto ciò mentre il crollo prolungato del prezzo del petrolio ha causato nel 2015 un disavanzo del bilancio del 15-16% del Pil: livelli greci. Il più grande esportatore al mondo di petrolio è stato costretto a dicembre a varare misure di austerità (tagli alle spese, una riforma dei sussidi energetici, privatizzazioni in vari settori) mentre l’Iran, non avendo più le sanzioni come ostacolo, pompa sempre più petrolio nel mercato già saturo.

Per questo sono significative le grandiose esercitazioni militari che lo scorso mese il principe Mohammad Bin Salman ha voluto tenere nella base di Hafr al Batin, sede della task force del Consiglio per la cooperazione del Golfo, al confine nord. Se le stime della stampa del Regno sono esatte, si è trattato della più grossa esercitazione dai tempi della liberazione del Kuwait. Obiettivo ufficiale: ancora una volta mostrare i muscoli all’Iran. Si voleva anche illustrare la “base solida” della nuova coalizione antiterrorismo di 34 paesi annunciata a dicembre da Mohammed Bin Salman come sforzo in chiave anti Isis e Al Qaeda (e anche anti Iran). Ma molti esperti hanno letto in questa grandiosa operazione il tentativo di spostare l’attenzione dalle difficoltà in Yemen sul fronte jihadista, nonché dalle tante contraddizioni interne che l’Arabia Saudita non riesce ancora ad affrontare.

Viviana Mazza

Siamo tutti yemeniti

«Se anche la guerra finisse oggi, lo Yemen resterebbe una voragine umanitaria enorme, una crisi comparabile soltanto a quella siriana». Il giorno in cui Johannes Van Der Klaauw pronunciava queste parole al telefono con il Corriere, un raid saudita su un mercato dello Yemen inceneriva 109 persone (tra cui 25 bambini): la strage peggiore dall’inizio della campagna aerea cominciata un anno fa.

Van Der Klaauw è il rappresentante dell’Unhcr (l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite) a Sana’a, l’uomo dell’Onu nell’epicentro di un conflitto dimenticato. «Una crisi che si protrae da anni, aggravata da quest’ultima guerra». Sono in corso colloqui diretti tra i sauditi e gli houthi, «e questo offre qualche elemento di speranza per un cessate il fuoco. Ma sarà un processo lungo, dall’esito nient’affatto scontato». In un Paese distrutto, «se anche le armi tacessero, ci vorrà molto tempo per uscire dall’emergenza». Intanto però le armi le armi in Yemen restano «logorroiche». «L’Onu ha denunciato violazione del diritto umanitario da ambo le parti. Ma è documentato che la grande maggioranza delle vittime civili è causata dai raid aerei. Questi attacchi devono finire». La comunità internazionale non presta ascolto, un po’ perché ci sono di mezzo i sauditi, un po’ perché – sottolinea Van Der Klaauw – «diversamente dalla Siria, la guerra nello Yemen non ha prodotto un flusso di rifugiati che premono ai confini dell’Europa».

La situazione a Sana’a è migliore che nel resto del Paese: «L’alleanza tra gli houthi e le forze legate all’ex presidente Saleh è stata garanzia di stabilità». La linea del fronte sta 50 km a Est, «ma in una zona comunque controllata da tribù filo-houthi. E nessuno avrebbe interesse a portare la guerra nella capitale». Quali potrebbero essere le prospettive di un accordo di pace? I sauditi vorrebbero che gli houthi se ne tornassero nelle loro roccaforti nel Nord… «Sono stato nel Nord, e posso dire che dopo un anno di bombardamenti non è rimasto molto a cui tornare. La strada è quella del power sharing: gli houthi devono diventare un movimento politico, all’interno di un governo di unità nazionale». Intanto però parlano le armi. E i soldi? Mancano. Le casse dello Yemen sono vuote. Ventun milioni di civili su 26 hanno bisogno di aiuti per sopravvivere. «L’Onu chiede 1,8 miliardi di dollari per il 2016. L’anno scorso il budget era 800 milioni, e abbiamo raccolto solo il 55% di quanto serviva. Quest’anno ne servono ancora di più ». Se anche ci fossero i soldi, rimane arduo far arrivare gli aiuti a chi ne ha bisogno. «Gli scontri, il blocco dei porti, il controllo frammentato del territorio da parte di diverse milizie, la necessità di negoziare il passaggio degli aiuti attraverso una miriade di checkpoint: tutti fattori che frenano enormemente la risposta all’emergenza umanitaria».

Immaginate l’Europa immersa in una guerra totale. Ci sarebbero migranti pronti ad attraversare il mare e rischiare la vita pur di raggiungerla? E’ quello che accade nello Yemen straziato dal conflitto. Nel 2015 quasi centomila africani sono approdati sulle coste yemenite con i barconi dei trafficanti. C’è chi non sa della guerra, chi ha già speso tutto e non può più rinunciare al viaggio. Nel gennaio 2016 in sedici sono morti annegati. Il disgraziato Yemen, ricorda Van Der Klaauw, è l’unico Paese della regione ad aver accettato una politica di accoglienza per i rifugiati in cerca di asilo. Con la guerra tutto è più difficile: oltre ai trafficanti, ci sono le milizie. L’Onu regista casi di migranti costretti ad «arruolarsi» nei gruppi armati. Sui 92mila giunti nel 2015, 82mila venivano dall’Etiopia, 10 mila dalla Somalia. I «migranti economici» arrivano con l’idea di spostarsi e cercare lavoro nei Paesi del Golfo, gli stessi che oggi mandano i caccia a bombardare i mercati dello Yemen, a incenerire donne e bambini. Sana’a come Bruxelles. Perché non ci professiamo tutti yemeniti?

Michele Farina

La roccaforte jihadista

Gli Usa non hanno dato tregua ad al Qaeda nello Yemen. Pochi giorni fa un raid ha spazzato vie decine di militanti sorpresi in un campo d’addestramento tra le montagne. Oltre 50 sarebbero stati eliminati dall’incursione aerea. Notizie da confermare sostengono anche che Ibrahim al Asiri, il mago delle bombe, l’artificiere capace di costruire ordigni che sfuggono ai controlli, sarebbe morto in un conflitto a fuoco. È lui ad aver ideato le mutande-bomba e altre trappole esplosive di dimensioni ridotte. Un uomo che non ha esitato a impiegare il proprio fratello come cavia in un’azione suicida per testare una delle sue invenzioni. Tutte informazioni che raccontano solo una parte della storia. Perché i qaedisti non sono mai stati così forti nello Yemen.

Il movimento – che spesso usa la denominazione Ansar al Sharia – ha sfruttato una serie di circostanze per guadagnare un territorio enorme, arrivando a controllare ben 8 località importanti, compresa Mukallah. Nella parte meridionale del Paese ha creato un santuario esteso dove fa quello che vuole. L’Hadramaut resta un punto di forza.

Questi gli elementi che hanno contribuito al successo di una fazione sopravvissuta alla decapitazione di molti suoi leader e ideologi. 1) Il conflitto ha dato possibilità, aperto spazi, portato reclute. 2) Povertà e crisi sociale endemica hanno rappresentato un ulteriore spinta, con molti giovani pronti ad aderire. In nome del jihad e come gesto di ribellione. 3) Le divisioni settarie, un aspetto che da sempre favorisce dall’Iraq alla Siria le componenti integraliste più radicali. 4) Il vuoto politico e militare creatosi in alcune regioni in seguito all’offensiva saudita. 5) Capacità operativa e strategia più scaltra.

L’attuale capo Qasim al Raymi ha curato molto la preparazione dei mujaheddin, ha mirato all’occupazione di alcune installazioni dell’esercito che hanno incrementato l’arsenale. Dunque molti mezzi per continuare la lotta, nuove postazioni per sbarrare la strada al nemico, la tradizionale mobilità. I qaedisti, insieme alle attività militari, non hanno rinunciato alle missioni terroristiche per colpire quadri, alti ufficiali, funzionari governativi. Metodo utile per seminare paura, creare un senso di insicurezza, provare di essere in grado di arrivare ovunque. Non diverso da quello che fa lo Stato Islamico.

Fondamentale poi la gestione delle aree conquistate. Come sottolineano molti esperti, al Qaeda ha corretto gli errori del passato. Per non alienarsi la popolazione ha introdotto la legge islamica senza esagerare. Ossia i cittadini devono rispettarle, però le punizioni e le regole sono meno rigorose. O comunque nell’amministrazione della Sharia c’è stata qualche forma di flessibilità. Secondo gli analisti questo atteggiamento avrebbe ridotto le frizioni con i civili così come i contraccolpi visti in alcune regioni. Impegnata localmente la formazione non ha dimenticato l’avversario storico, gli Stati Uniti. In dicembre, sempre Al Raymi, ha tenuto una lezione diffusa sul web dove ricorda ai militanti che l’America resta il «nemico primario».

Un appello dalla doppia valenza. Le parole rientrano nella propaganda classica del qaedismo ribadendo che la guerra civile non deve essere un ostacolo a nuovi piani contro target statunitensi. Ma soprattutto servono a tenere testa alla sfida dell’Isis che, con alcuni attentati e proselitismo, sta cercando di inserirsi in questo quadrante. In altre parole Al Raymi non vuole apparire troppo morbido rispetto alla linea oltranzista del Califfo, ma senza compromettere quanto costruito in questi mesi. Un duello che va ben oltre la crisi dello Yemen e si salda con il dualismo tra le due anime del jihad.

Guido Olimpio

LE TAPPE DELL’ESCALATION

Novembre 2013

Il presidente Saleh cede il potere al vice-presidente Hadi che prende il potere nel febbraio 2012.

Settembre 2012

Il ministro della difesa Muhammad Nasir Ahmad sopravvive a un attentato di Al Qaeda in Yemen che uccide 11 persone il giorno dopo che in un raid delle forze yemenite è rimasto ucciso Said al-Shihri, il numero due di Al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap).

Novembre 2012

Nella capitale Sana’a viene ucciso un diplomatico saudita con la sua guardia del corpo. L’assalto viene condotto da uomini travestiti con uniformi da poliziotti.

Gennaio 2014

Viene convocata l’ultima sessione della Conferenza del dialogo nazionale, cancellata a causa delle manifestazioni dei movimenti secessionisti del paese, che chiedono l’indipendenza dello Yemen meridionale. La Conferenza ha il compito di gettare le basi per una nuova costituzione e avviare i preparativi per le nuove elezioni.

Febbraio 2014

Il governo presenta un piano per trasformare lo Yemen in una repubblica federale composta da sei regioni.

Settembre 2014

Gli houthi prendono il controllo di diverse zone della capitale, in seguito alla decisione del governo di tagliare i sussidi sul carburante, col conseguente aumento del prezzo della benzina, dell’energia elettrica e dei beni di prima necessità. Le proteste si trasformano in guerriglia e i miliziani sciiti arrivano a controllare una parte di Sana’a e altre città dello Yemen.

Febbraio 2015

La firma dell’accordo di pace tra il presidente yemenita e i miliziani sciiti porta al parziale ritiro del gruppo armato dalla capitale. L’accordo prevede inoltre la formazione di un nuovo governo di unità nazionale, di cui faranno parte alcuni membri houthi e del movimento secessionista Hiraak al-Janoubi.

Marzo 2015

Lo Stato islamico compie il suo primo attacco in Yemen, due kamikaze colpiscono una moschea a Sana’a. Muoiono 137 persone. Gli houthi avanzano nel sud dello Yemen e una coalizione degli Stati del Golfo guidata dall’Arabia Saudita lancia dei raid contro i ribelli e impone un blocco navale.

Settembre 2015

Il presidente Hadi torna ad Aden dopo che le forze saudite hanno ripreso la città portuale caduta nelle mani degli houthi.

Luglio 2014

Il personale delle Nazioni Unite e il personale diplomatico viene evacuato. Le ambasciate vengono chiuse.

Gennaio 2016

Secondo i dati Onu, dal marzo 2015 sono circa 6.000 le vittime dei bombardamenti.

Marzo 2016

Quattro suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta e altre 12 persone vengono uccise ad Aden in un assalto.

Fine.

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