I PADRONI DELLO STATO

Redazione, avete ragione questo è lo stato dei padroni Un lettore Dalla Repubblica ALBERTO STATERA Presidente, è arrivato un telegramma per lei”. “Da dove viene?”. “Da un Paese di merda”. “Bene! Allora lì c’è il petrolio”. Questo siparietto – autentico – tra Enrico Mattei, primo presidente dell’Eni, e il suo collaboratore Giuseppe Ratti, risale a più di mezzo secolo fa. Ma torna di incalzante attualità geopolitica nel momento in cui il governo di Matteo Renzi sembra virare decisamente verso l’Africa, nonostante le guerre e i conflitti tribali, archiviando l’avida russofilia volta agli affari personali dell’era Berlusconi per puntare alla […]
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Redazione,

avete ragione questo è lo stato dei padroni

Un lettore

Dalla Repubblica

ALBERTO STATERA

Presidente, è arrivato un telegramma per lei”. “Da dove viene?”. “Da un Paese di merda”. “Bene! Allora lì c’è il petrolio”. Questo siparietto – autentico – tra Enrico Mattei, primo presidente dell’Eni, e il suo collaboratore Giuseppe Ratti, risale a più di mezzo secolo fa. Ma torna di incalzante attualità geopolitica nel momento in cui il governo di Matteo Renzi sembra virare decisamente verso l’Africa, nonostante le guerre e i conflitti tribali, archiviando l’avida russofilia volta agli affari personali dell’era Berlusconi per puntare alla “Terza Repubblica energetica”.

Non a caso il motto di Mattei compare nel frontespizio di un libro di Andrea Greco e Giuseppe Oddo, nato da un lavoro annoso e certosino di ricerca e consultazioni delle fonti, che arriva oggi in libreria con il titolo Lo Stato parallelo – La prima inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari e nuove guerre. Da Mattei a Renzi . La lunghezza del titolo non fa torto alla massa di informazioni in buona parte inedite che aiutano a leggere e interpretare molte delle vicende del nostro Dopoguerra dipanatesi tra industria e corruzione, servizi segreti e affarismo, politica e logge massoniche, sicurezza nazionale, bassa cucina del potere e persino baccanali sessuali.

Matteo Renzi era presidente del Consiglio da neanche quaranta giorni, quando, con la prontezza di riflessi che tutti gli riconoscono, tracciò in poche parole un ritratto disinibito e senza fronzoli dell’Eni, come pilastro ineludibile della politica: “L’Eni – disse – è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti”. Ma può una Spa farsi Stato mescolando le funzioni della propria security con le istituzioni deputate all’ordine pubblico, alla sicurezza e alla difesa nazionale? Naturalmente no, ma fino dalla sua nascita l’Eni è stato un singolare ircocervo: petrolio e spionaggio, politica e tangenti. Eugenio Cefis, l’uomo che prese il posto di Mattei dopo che questi si era schiantato con l’aereo a Bascapè e che condusse definitivamente l’Eni nella palude della corruzione, veniva dal Sim, il Servizio d’informazione militare di epoca fascista, da cui dopo la guerra nascerà il tristemente noto Sifar. Negli anni trascorsi all’Eni dall’uomo che molti ancora ritengono il vero “puparo” della loggia P2, che ha avuto successive evoluzione in P3 e P4 (secondo la semplificazione giornalistica), lo spionaggio interno ed esterno era la regola, tanto che molte delle ville costruite intorno al grattacielo romano erano la base di potenti apparati di ascolto. Possiamo testimoniare che persino Franco Reviglio della Venaria, un sommesso e ingenuo professore di economia torinese che fu presidente dell’Eni negli anni Ottanta, quando incontrava qualcuno a pranzo nel suo ufficio, a un certo punto si alzava dalla sedia e chiedeva di continuare la conversazione che si era fatta delicata a passeggio intorno al laghetto dell’Eur su cui si affaccia il grattacielo dell’Eni.

A Metanopoli, quartier generale dell’Eni a Milano, tra decine di telecamere una a un metro dall’altra, sono ancora ben visibili i fasti della security dell’era di Paolo Scaroni, l’amministratore delegato nominato da Berlusconi su sponsorizzazione di Luigi Bisignani, figlioccio di Licio Gelli, e che lo ha gratificato in tutta l’epoca russofila, persino quando voleva personalmente intermediare petrolio: “Caro Vladimir, cosa ne diresti di vendermi un po’ di petrolio da rivendere in Italia?”, chiese l’ex presidente del Consiglio al russo, secondo quanto ha testimoniato agli autori l’interprete di quell’incontro. La sicurezza stessa divenne un affare milionario attraverso la Italgo, di cui era maggiore azionista Francesco Micheli, che aveva lavorato per Cefis alla Montedison, e amministratore delegato Anselmo Galbusera, intimo di Bisignani, che attraverso il faccendiere pregiudicato intercettava commesse nel settore pubblico. Dell’Italgo rimane, come simbolo della grandeur di Scaroni, la “sala di crisi” dell’Eni costata 5,4 milioni di euro e degna del Pentagono. Spiccioli rispetto ai 200 milioni l’anno assegnati al budget delle Relazioni esterne per la fabbrica del consenso o ai 45milioni di compensi ufficiali incassati da Scaroni negli anni trascorsi all’Eni, che sono andati a rimpinguare “The Paolo Scaroni Trust” e il tesoretto piazzato alle Isole Vergini.

La tesi di Greco e Oddo, ampiamente motivata, è che un filo ininterrotto lega l’antica P2 a quella che è stata chiamata P4, un sistema informativo parallelo, un’associazione con varie finalità: soccorrere gli amici nei guai con la giustizia, controllare l’assegnazione di appalti pubblici, orientare le nomine al vertice di istituzioni e aziende di Stato, condizionare quel che resta della politica, attraverso un network tuttora potente che vede muoversi, accanto ad alti ufficiali e dirigenti collocati in ruoli-chiave, una cupola nella quale con il “figlioccio” Bisignani, compaiono tra gli altri Gianni Letta, l’ex banchiere Cesare Geronzi, Guido Bertolaso e, da ultimo in un ruolo crescente, Denis Verdini, che di fatto è riuscito a inserirsi anima e corpo nelle alte sfere del potere renziano.

Chi l’ha detto che Renzi è stato catturato dal vecchio network di potere oscuro e che invece non sia accaduto l’opposto, che sia stato lui a colonizzarlo per raggiungere i suoi target? La nomina di Claudio Descalzi, con la bruciatura di Scaroni che ora pietisce un posto all’Ilva, la tutela a tutto campo garantita al nuovo capo dell’Eni, la deriva italoafricana in alternativa a quella russofila,

il sipario calato sul gasdotto South Stream: tutto congiura a confermare la nuova strategia geopolitica di Renzi, avvalorata dallo stesso Descalzi quando ha proclamato che vorrebbe liberarsi del “cappio al collo” dei contratti take or pay con la Russia. In onore di Matteo l’Africano.

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