Lettera di un operaio della Fiat di Melfi

  Pubblichiamo questa lettera di un operaio della FIAT  di Melfi che descrive la condizione cui sono sottoposti gli operai moderni alla catena di montaggio. Ne viene fuori la realtà di come i padroni riducono gli operai ad una mera appendice vivente della macchina. L’operaio vede la macchina come attrezzo necessario, e nell’alienazione arriva sino  a ringraziare la stessa macchina, che esistendo gli permette di portare a casa il salario per riprodursi. Questo essere umano è costretto a subire la gerarchia aziendale, a cui è obbligato rivolgersi, quasi fosse una supplica, per poter svolgere una necessità del tutto naturale, […]
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Pubblichiamo questa lettera di un operaio della FIAT  di Melfi che descrive la condizione cui sono sottoposti gli operai moderni alla catena di montaggio.
Ne viene fuori la realtà di come i padroni riducono gli operai ad una mera appendice vivente della macchina.
L’operaio vede la macchina come attrezzo necessario, e nell’alienazione arriva sino  a ringraziare la stessa macchina, che esistendo gli permette di portare a casa il salario per riprodursi. Questo essere umano è costretto a subire la gerarchia aziendale, a cui è obbligato rivolgersi, quasi fosse una supplica, per poter svolgere una necessità del tutto naturale, come quella di un bisogno  fisiologico. Una violenza inaudita che viene giustificata dalla produzione e dalla necessità di lavorare.
L’umiliazione di chiedere ad un superiore di poter abbandonare la catena che gli stringe il piede per poter andare al cesso. Nella società esterna sarebbe un atto inaudito di prevaricazione, in fabbrica quello che all’esterno fa inorridire, diventa una quotidianità . Finché dura. Finché l’operaio della FIAT di Melfi si chiederà: ma è proprio necessario essere schiavi per poter vivere?
Da quel momento in poi scoprirà il padrone, i suoi profitti e la necessità di liberarsene.

 La lettera:

Oggi potere dire lavoro è importante, il lavoro sappiamo tutti che nobilita l’uomo, ma è anche importante per poter sopravvivere, si oggi si sopravvive.

Avere un lavoro fa stare bene con se stessi, ci si realizza, si vive in un modo umano.

Lavoro presso una fabbrica e non me ne vergogno, certo si fanno dei turni tra cui le notti e non è semplice, ma piano piano ci si abitua perché è importante.

Penso che qualsiasi lavoro si faccia ci si imbatte nei pro e contro, certo in fabbrica è più difficile, si sta sette ore e mezza in piedi, su di fronte ad una macchina, ad una macchina che devi dirle grazie che mi fa lavorare, che a volte non si ferma mai e tu persona devi stargli dietro, non puoi stancarti mai.

Hai pochi minuti a tua disposizioni per poterti fermare, magari sederti per poter riprendere e ricominciare, chiedere con umiltà di andare in bagno, che questo fa un po’ male in fondo è un bisogno necessario, ma si sopporta, ci si dice non fa niente e si va avanti.

Forse se si potesse fare a meno dei rumori che sono tanti e si potesse avere un po’ più contatti umani, significherebbe lavorare umanamente.

Si è coscienti e consapevoli che il lavoro deve essere fatto in quel modo ma non con il timore di essere cacciati fuori da un momento all’altro.

Oggi avere delle certezze significa vivere.

Un operaio interinale della Fiat di Melfi

 

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2 Comments

  1. Michele

    perchè uno dovrebbe vergognarsi di lavorare in fabbrica? ….

    • Roberto

      Forse perché si dice che “il lavoro nobilita l’uomo” (lo tesso più o meno fu però scritto sul cancello di Auschwitz), ma quando poi uno fa e vive il lavoro come operaio, soprattutto alla catena, sottoposti al regime di fabbrica così ben descritto nella corrispondenza) si accorge che non ci può essere alcuna dignità, bensì degrado umano, in quel lavoro da schiavo moderno.
      Se allora come singolo individuo uno è costretto “per sopravvivere” a fare l’operaio, la schiavitù moderna può ben far sorgere il senso di vergogna nell’individuo. La considerazione di trovarsi in quella condizione non per fattori sociali e che pertanto colpisce una collettività (e può pertanto essere rovesciata), ma per incapacità del singolo individuo che la società relega al lavoro di fabbrica (e pertanto ti tocca subire per una vita).