CARA DI CROTONE, ALTRO BANCOMAT DEI POLITICI E DEI MAFIOSI

dal Corriere Un Cara – Centro di accoglienza per richiedenti asilo – può essere molte cose. A Isola Capo Rizzuto è 1.200 anime (al massimo dovrebbero starcene 800) di una dozzina di etnie diverse. Per gli investigatori è anche un affare degli Arena, i padrini di Isola. Scusi, attorno a voi c’è la ‘ndrangheta? Piccolo sobbalzo: «Non capisco cosa sta dicendo, eh!, mi scusi lei». Dico: date lavoro e speranze in una zona, tra Isola Capo Rizzuto e Crotone, povera e disperata… Sospiro profondo: «…eeeh, mi dispiace quando vedo dei disservizi». No, dicevo: la sentite la pressione della ‘ndrangheta, […]
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dal Corriere

Un Cara – Centro di accoglienza per richiedenti asilo – può essere molte cose. A Isola Capo Rizzuto è 1.200 anime (al massimo dovrebbero starcene 800) di una dozzina di etnie diverse. Per gli investigatori è anche un affare degli Arena, i padrini di Isola.

Scusi, attorno a voi c’è la ‘ndrangheta? Piccolo sobbalzo: «Non capisco cosa sta dicendo, eh!, mi scusi lei».
Dico: date lavoro e speranze in una zona, tra Isola Capo Rizzuto e Crotone, povera e disperata…
Sospiro profondo: «…eeeh, mi dispiace quando vedo dei disservizi». No, dicevo: la sentite la pressione della ‘ndrangheta, quindi?
Lieve pallore: «…c’è una cultura retrò, ma io sono sereno».
Lei però è di Isola. Sa chi sono gli Arena?
«Li leggo sui giornali, ma mica li vedo in giro, eh! E poi, un cognome cosa mai significa? Il mio professore delle medie si chiamava Arena!».
Sono i padrini di Isola, comandano fino a Crotone. Gente retrò?
«Chiusa. Ma lei non è qui per parlare di queste cose, no? Perché non parliamo del Cara?».

Rigido nella sua giacchetta azzurrina, Francesco Tipaldi, 33 anni, direttore del Cara di Sant’Anna, qui, sulla Statale Ionica 106 che ha scritto una parte terribile della propria storia con il sangue, non pronuncia mai la parola ‘ndrangheta: ma non ha poi tutti i torti. Un Cara – un Centro di accoglienza per richiedenti asilo – può essere molte cose.

Per gli investigatori antimafia di Catanzaro è un affare degli Arena. Questa, almeno, è la tesi di un’indagine ancora riservata (e da negare in via ufficiale) sui tentativi di infiltrazione nei servizi e nelle forniture che la Confraternita della Misericordia, gestore in convenzione del centro d’accoglienza, affida a imprese locali. Ghibli 2 (nome non casuale, la prima inchiesta Ghibli smantellò la parte militare del clan) si è a lungo inabissata in qualche cassetto ma infine è riemersa come un fiume carsico e punta entro l’anno a incastrare una dozzina di colletti bianchi: gli affiliati occulti. Fosse servito un faro in più, l’ha acceso l’attentato dell’anno scorso ai furgoni della «Quadrifoglio», la ditta del consigliere comunale isolitano Pasquale Poerio che al Cara fornisce il catering. Su un tavolo opaco dove talvolta si confondono vittime e collusi (a rischio di cantonate), la torta è fatta dei milioni erogati dalla prefettura di Crotone per il mantenimento dei rifugiati, ma anche di assunzioni e voti (qui lavorano in 400, con l’indotto «ci fai eleggere un sindaco, se vuoi», dice una fonte) e forse di intese massoniche, contatti con deputati, aspirazioni a un posto in Parlamento.

Ma un Cara come questo, la mattina in cui lo visitiamo, è molto altro ancora. È 1.200 anime (al massimo dovrebbero starcene 800) di una dozzina di etnie diverse, tutte in attesa di un destino che viene deciso nel settore blindato della commissione territoriale. Ernest, ghanese, mi dice in un inglese sincopato: «Il 25 tocca a me, voglio il foglio, senza un documento in Europa non sei un uomo». Mustafà fa i salti di gioia, il «foglio» l’ha appena preso, ride con un poliziotto: «Adesso vado a vivere a casa tua!».

Un Cara mescola filo spinato e latte per i bambini, botte e carezze, prostituzione e redenzione. Mary, nigeriana, ci ha partorito la sua Testimony due mesi fa, appena arrivata: domani escono, le hanno prese in uno Sprar, ricovero a misura di mamma e neonata. La Misericordia, fondata nel 1988 dal parroco di Isola, Edoardo Scordio, sarà pure diventata una calamita per arrampicatori, ma attira senza dubbio volontari e ragazzi generosi. Nei prefabbricati, che hanno sostituito i container, si arrangia una parvenza di vita, panni stesi, materassi a terra, «noi abbiamo i subsahariani, non gli ingegneri siriani». Issangae va di continuo in infermeria. È alto due metri, fissato con la pressione. L’hanno già bocciato, ha fatto ricorso, «in Gambia non ci torno, sono gay e mi ammazzano», dice, guardando il muro del Cie, il centro di espulsione appena riattivato. I migranti disegnano madri come madonne addolorate, nel laboratorio di pittura. Poi animano rivolte feroci, l’ultima il 13 luglio, con la 106 occupata, i lacrimogeni, i voli cancellati nell’aeroporto che sta proprio qui di fronte. «Qui adesso ti sembra il paradiso e dodici ore dopo scoppia l’inferno». Il 4 settembre sono arrivati in un colpo solo 800 eritrei e la sera ne sono scappati trecento.

La chiave è Crotone. Non si capisce il Cara (che in realtà sta nel vicino territorio comunale di Isola) se non si capisce Crotone. Una città abbandonata dall’Italia dopo la chiusura delle sue fabbriche. Senza autostrada. Con una stazione da cui smontano i binari, tanto non ci arriva più nessuno tranne i «dublinanti», che nemmeno li prendono al Cara, perché il permesso di soggiorno lo hanno già e sono costretti dal regolamento di Dublino a tornare qui, alla questura d’arrivo, per rinnovarlo, bivaccando, nel frattempo, due, tre mesi in stazione.

Peppino Vallone, sindaco pd di Crotone, dice che «la Misericordia fa business». Pare paradossale, ma il Cara è l’ultima cosa viva in questa terra morta. Il catering un tempo era crotonese. Il barista dell’aeroporto mi sussurra di «lamentele dei neri»: «Gli danno razioni da malati d’ulcera, vengono qui affamati». Noi vediamo in verità pietanze abbondanti (pasta, pollo, patatine, frutta), ma, chissà, la nostra visita non è certo a sorpresa. A domanda, nessuno si lagna. Ma un pachistano sorride enigmatico «Ogni stomaco è uno stomaco diverso». Pure l’uso di buoni da spendere solo dentro il Cara, in luogo del «pocket money» da dare ai migranti, è molto controverso, benché previsto dalla convenzione con la prefettura. Chiedere lumi è impossibile, il prefetto ci rifiuta il colloquio. Forte è la sensazione di un temporale in arrivo.

Leonardo Sacco, governatore della confraternita e pupillo di don Scordio, non si fida dei giornalisti. Mi dirotta sul suo avvocato, Francesco Verri: il volto migliore che la confraternita possa offrire oggi. Verri parla con passione, toni franchi: «Non sono un legale di ‘ndrangheta, sono stato parte civile per Dodò», il bimbo ammazzato qui dalle pallottole della mafia. Sostiene che la Misericordia ha le carte in regola; che ogni assunzione ha l’avallo della prefettura. Ammette, sì, che i fornitori subiscono pressioni, «ma li ho sempre spinti a denunciare chiunque». Esclude quindi che teste di legno degli Arena abbiano lavorato o lavorino per il Cara? «No. Quel che posso dire è che la prefettura fa le sue indagini; se c’è un rischio, licenziamo, rescindiamo. Ma se questo percorso non fosse compiuto o fosse in itinere, io non lo so». Efficace. L’unica sfasatura è quando, per due volte, definisce «presunto boss» un mafioso conclamato (per sentenza) come il padrino storico Nicola Arena. Ovviamente, un lapsus casuale. E raro: perché in Calabria quasi nulla si dice per caso.

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