I BARCONI NEL MONDO

Dalla Repubblica BANGKOK – NESSUNO ne conosce il numero, anche se un ministro malese parla di 7.000 persone e i gruppi dei diritti umani di ben oltre 8.000. Sono musulmani rohingya e bengalesi dal Bangladesh e dalla Birmania, apparsi all’improvviso tra fine aprile e maggio lungo le spiagge del sudest asiatico, magri, affamati, ammalati. Come i migranti del Mediterraneo, a bordo di carrette del mare che hanno cercato ovunque un luogo dove attraccare e sono state sistematicamente respinte. Molti di questi natanti potrebbero presto trasformarsi in bare galleggianti, con i superstiti che cercano di sopravvivere costi quel che costi. […]
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Dalla Repubblica

BANGKOK – NESSUNO ne conosce il numero, anche se un ministro malese parla di 7.000 persone e i gruppi dei diritti umani di ben oltre 8.000. Sono musulmani rohingya e bengalesi dal Bangladesh e dalla Birmania, apparsi all’improvviso tra fine aprile e maggio lungo le spiagge del sudest asiatico, magri, affamati, ammalati. Come i migranti del Mediterraneo, a bordo di carrette del mare che hanno cercato ovunque un luogo dove attraccare e sono state sistematicamente respinte. Molti di questi natanti potrebbero presto trasformarsi in bare galleggianti, con i superstiti che cercano di sopravvivere costi quel che costi. Impossibile ancora saperlo.

Nei giorni scorsi, dopo il clamore internazionale suscitato dalle prime notizie sull’odissea dei naufraghi, la Thailandia ha convocato un vertice di Paesi asiatici e osservatori umanitari internazionali che si riunisce oggi a Bangkok per far fronte all’emergenza delle migrazioni in Oriente. Mentre Malesia e Indonesia hanno accettato di accogliere e dare rifugio alle barche erranti da settimane e mesi tra le Andamane e l’Indonesia, la Thailandia ha già detto che continuerà a rifornirle soltanto di viveri e rispedirle al largo, impedendo ogni sbarco. È la stessa linea dura scelta 3 anni dall’Australia, che “subappalta” i migranti ad altri Paesi come Nauru, la Nuova Guinea e ora la Cambogia.

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L’unico salvataggio finora documentato di quest’ultima odissea, è quello di una barca avvistata da una troupe della Bbc e giunta salva lungo le coste orientali di Aceh, con centinaia di uomini, donne e bambini al limite del collasso. Altre migliaia e migliaia restano abbandonati al largo, almeno 3mila secondo dati delle Nazioni Unite  –  a lottare tra la vita e la morte, soprattutto membri dell’etnia musulmana Rohingya vittima di feroci discriminazioni etniche e religiose in Birmania, ma anche bengalesi affamati dall’erosione delle coste del Bangladesh per effetto dei cambi climatici. L’ultima ondata senza precedenti di disperati alla deriva è salpata tra i due e i 4 mesi fa dal Mare delle Andamane o dal Golfo del Bengala e da allora i naufraghi navigano all’addìaccio sotto il sole tropicale tra Thailandia, Malesia e arcipelago indonesiano, senza acqua né cibo, tra voci incontrollate e incontrollabili di violenze e perfino cannibalismo a bordo. Ma non servono iperboli per descrivere le possibili conseguenze del gioco al rimpallo sulla pelle di questa umanità dolente, in cerca di salvezza dopo la “pulizia etnica” del 2012 contro i Rohingya da parte dei buddhisti dello stato birmano dell’Arakan, oltre alle costanti discriminazioni subite da questo popolo in fuga anche nell’islamico Bangladesh.

L’ultima ondata di pericolosi viaggi via mare è stata anche la conseguenza del pugno duro dei generali di Bangkok, che hanno rafforzato i controlli dei soldati lungo l’antica rotta terrestre degli schiavi, con l’arresto di decine di contrabbandieri e ufficiali corrotti ai confini con la Malesia. Proprio nella provincia frontaliera di Songkhla ai primi giorni di maggio sono venute alle luce più di 30 fosse comuni con almeno 120 cadaveri di Rohingya e bengalesi, talvolta con segni di tortura e violenze, forse morti o uccisi dai trafficanti per nasconderli ai rastrellamenti dell’esercito.

I negrieri  –  in gran parte thai  –  sono spesso gli stessi che grazie a forti complicità, oltre a trasportare nell’oceano i clandestini, assoldano a paghe da fame i pescatori per le navi del tonno, dei calamari e dei gamberetti che riforniscono molte tavole dell’Occidente. Il monopolio del mercato delle braccia costringe gli schiavi a lavorare per mesi e anni al largo senza poter mettere piede a terra, un fenomeno ben noto alle autorità internazionali che minacciano severe sanzioni contro la Thailandia, attualmente tra i maggiori esportatori di pesce lavorato al mondo.

“I poveri Rohingya sono da mesi su una barca laggiù senza sapere che sarà di loro  –  ha detto il Papa paragonandoli ai profughi Yazidi dello Stato islamico  –  Arrivano in una città dove qualcuno gli dà acqua e cibo e dice loro di andare via. Questo è un addio”, ha denunciato il pontefice. Si riferiva a tutti i Paesi che si sono rifiutati di accoglierli lungo il pericoloso tragitto, dalla buddista Thailandia alle islamiche Malesia e Indonesia.
Hasìna Begun, 22 anni, è una del gruppo di fortunati salvati dai pescatori di Banda Aceh est al termine di un’atroce odissea vissuta coi familiari e altri Rohingya come lei, definiti dalle Nazioni Unite uno dei popoli “più perseguita- ti del Pianeta”. Da secoli rimpallati tra l’islamico Bangladesh che li ritiene stranieri e la buddista Birmania che nega loro cittadinanza e diritti civili, sono vittime di una guerra tra poveri ammantata di motivazioni religiose come nello stato dell’Arakan. Un ex ministro thai era perfino giunto a definirli “brutti come orchi” e quindi indegni di accoglienza. Da almeno tre anni cercano rifugio bussando inutilmente alle porte dei Paesi dell’Asean, e  –  nonostante i no ricevuti  –  tra i 45 e i 120 mila Rohingya vivvrebbero già in Malesia, un numero che il governo di Kuala Lumpur ritiene già al limite delle sue capacità. Lo stesso sostiene la Thailandia, che ne ospita oltre 100mila in diversi campi profughi provenienti da vari luoghi di conflitto e povertà del Myanmar. Quanto all’Indonesia, ospita temporaneamente almeno 1.300 esuli dell’ultimo gruppo, ma a decine di migliaia erano già sbarcati con gli esodi precedenti in vari punti dell’arcipelago. Hasina aveva raggiunto la settimana scorsa le coste di Aceh a bordo di una barca di legno partita almeno due mesi fa dal Golfo del Bangladesh carica di Rohingya come lei e di musulmani bengalesi. Appena salvata dai pescatori di Langsa, ha raccontato che i trafficanti thai e malesi le avevano estorto 300 dollari per il passaggio via mare, poi l’avevano abbandonata assieme a suo fratello e altri 700 compagni di sventura sulle coste della Thailandia, dov’erano stati riforniti di un po’ d’acqua e viveri prima di essere rispediti al largo senza equipaggio.

Raggiunta quella che doveva essere la meta finale, in Malesia la barca di Hasina è stata accompagnata da motovedette armate verso le acque indonesiane con l’ordine di “non tornare più indietro “. La stessa sorte stava per capitarle sulle coste di Aceh quando almeno 100 compagni di sventura, compreso suo fratello, sono stati massacrati a coltellate, colpi di machete e bastoni per una rissa scatenata a bordo per via della penuria di acqua. I superstiti in preda all’orrore e prossimi ad annegare nella barca semiaffondata, sono stati tratti in salvo dai pescatori di Langsa e portati a terra nonostante il divieto delle autorità costiere.

La ragazza e gli altri testimoni hanno descritto scene apocalittiche avvenute tra il ponte superiore e quello inferiore dell’imbarcazione da pesca dove erano divise le famiglie secondo l’origine. “I bengalesi tentavano di salire sul piano dei Rohingya decisi a prendersi armi in pugno le ultime taniche d’acqua per dissetare i loro bambini  –  ha raccontato un uomo di nome Mohammad Amih  –  e per un po’ sono stati respinti con armi rudimentali e lanci di acqua di mare mischiata al peperoncino, poi è cominciata la strage. Molti si lanciavano dalla barca per sfuggire al massacro  –  ha detto Hasina  –  ma mio fratello non ce l’ha fatta ed è stato sgozzato e buttato a mare. C’erano cadaveri e feriti dappertutto”.

Dopo le parole del Papa, il governo cattolico delle Filippine ha annunciato che fornirà assistenza alle vittime dei trafficanti asiatici anche se non ha specificato come. Altri segnali che qualcosa si sta muovendo vengono dalla dichiarazione con la quale il ministro dell’Interno malese ha invitato le Ong “di ogni razza e religione” ad aiutare i migranti abbandonati in mare. Anche il governo birmano ha espresso per la prima volta “preoccupazione” sulla sorte dei profughi, in gran parte partiti proprio dalle sue coste per fuggire ai pogrom buddisti. Ma aldilà della buona volontà dei singoli Stati, sarà l’esito dell’incontro di oggi a Bangkok a far capire se, a differenza dei governi di Bruxelles che hanno maggiori vincoli comuni, i membri dell’Asean sapranno rispondere uniti e solidali all’emergenza che occupa da settimane le prime pagine di tutti i giornali.

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