STUPRI DI MASSA IN ALGERIA LA DENUNCIA DI UNA STORICA FRANCESE

Redazione, Nel momento in cui la retorica viene utilizzata dai padroni e politici per sviluppare l’odio contro i mussulmani in Francia e in tutta l’europa, ritengo utile proporvi questo scritto. Ne avrei potuto scegliere centomila Un lettore Fabio Gambaro – “La Repubblica” del 14 ottobre 2001 Ci sono voluti quarant’anni perché la Francia si decidesse a fare luce sulla sale guerre che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta il suo esercito ha combattuto in Algeria contro il Fronte di Liberazione. Per quarant’anni, infatti, quella “guerra sporca” in difesa di uno degli ultimi pezzi dell’impero coloniale […]
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Redazione,

Nel momento in cui la retorica viene utilizzata dai padroni e politici per sviluppare l’odio contro i mussulmani in Francia e in tutta l’europa, ritengo utile proporvi questo scritto. Ne avrei potuto scegliere centomila

Un lettore

Fabio Gambaro – “La Repubblica” del 14 ottobre 2001

Ci sono voluti quarant’anni perché la Francia si decidesse a fare luce sulla sale guerre che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta il suo esercito ha combattuto in Algeria contro il Fronte di Liberazione. Per quarant’anni, infatti, quella “guerra sporca” in difesa di uno degli ultimi pezzi dell’impero coloniale francese è stata come rimossa e dimenticata. E con essa tutte le ingiustizie, le violenze, le torture e le esecuzioni sommarie che l’hanno accompagnata. Qualcuno ogni tanto ne parlava, denunciando le atrocità di quel periodo, ma la società francese sembrava sempre non voler ascoltare e voltava la testa dall’altra parte. Oggi però l’ora della verità sembra finalmente arrivata: gli storici si sono messi al lavoro, le testimonianze si accumulano e le librerie sono piene di saggi e romanzi che rievocano quegli anni. Così, a poco a poco quei fatti lontani riemergono dall’oblio, costringendo i francesi a confrontarsi con il loro carico di orrore e sofferenze. Due giorni fa, ad esempio, Le Monde ha riaperto uno dei capitoli più vergognosi – e più ostinatamente taciuti – di quella guerra, dedicando un’intera pagina agli stupri commessi dai soldati francesi sulle donne algerine e raccontando come un uomo nato allora da uno stupro collettivo si sia oggi deciso a chiedere i danni allo stato francese.

Secondo le testimonianze raccolte dal quotidiano parigino le violenze sulle algerine non furono certo poche e sporadiche, come hanno sostenuto a lungo le gerarchie militari, ma una pratica molto generalizzata. Gli stupri «ebbero un carattere di massa in città ma soprattutto in campagna», specie tra il 1959 e il 1960, quando l’esercito cercò di annientare definitivamente le formazioni indipendentiste. Un soldato che allora assistette «a centinaia di stupri», racconta che in un noto centro di tortura di Algeri «le donne venivano violentate in media nove volte su dieci, in funzione della loro età e del loro aspetto fisico». Naturalmente non è facile avere dati precisi su tali crimini, anche perché non esistono tracce scritte e sono pochi coloro che accettano di testimoniare. Giselle Halimi, che fu uno dei primi avvocati a denunciare le torture in Algeria, ha però confermato che «nove volte su dieci le donne da lei interrogate avevano subito stupri di ogni tipo, ma la loro vergogna era tale che la supplicavano di nascondere la verità». Oggi i tabù iniziano a cadere e c’è chi ha il coraggio di parlare, come ha fatto ad esempio Luisette Ighilahriz in un libro implacabile e commovente intitolato Torturée par l’armée française (Fayard), in cui ha raccontato senza giri di parole come fu torturata e violentata dai soldati francesi.

Molte testimonianze figurano anche in un voluminoso studio appena pubblicato da una giovane storica, Raphaëlle Branche, che per anni ha fatto ricerche e spulciato archivi, ricostruendo così con precisione la mappa terribile della tortura durante il conflitto algerino. La torture et l’armée pendant la guerre d’Algerie 19541962 (Gallimard, pagg. 470) è un libro sconvolgente che analizza metodicamente i comportamenti e le pratiche dei soldati francesi, studia il funzionamento delle istituzioni, illustrando l’ingranaggio della violenza individuale e collettiva, nonché i processi di autogiustificazione cui faceva ricorso l’esercito.

«Durante la guerra ci sono stati due diversi tipi di stupro», ci dice la storica. «Innanzitutto lo stupro come atto di tortura sulle donne, ma anche sugli uomini, per ottenere delle informazioni in un contesto più generale di violenza nei confronti dei prigionieri. Diverso è invece il caso dello stupro nel corso delle operazioni militari nelle campagne, dove le donne venivano violentate senza alcun motivo. Nell’uno come nell’altro caso, le testimonianze sono spesso lacunose e contraddittorie. Si sa con certezza però che le donne arrestate venivano molto spesso violentate. Lo stupro a volte era di gruppo, altre volte veniva realizzato con oggetti di vario tipo. In ogni caso, era uno dei mezzi di tortura più comunemente utilizzati dai nostri soldati. Era un vero e proprio condensato di tutta la violenza dell’esercito francese in Algeria, anche se naturalmente è molto difficile generalizzare, giacché il ricorso alla tortura variava da regione a regione, da periodo a periodo. Molto dipendeva dal comportamento degli ufficiali, i quali potevano coprire o meno tali brutalità, che naturalmente ufficialmente erano vietate. La tortura in genere, anche quando era disapprovata dai superiori, veniva sanzionata molto raramente, mentre per lo stupro la situazione era un poco diversa. Qualcuno cercò di opporsi, sebbene evitare gli stupri fosse l’ultima delle preoccupazioni degli ufficiali francesi. Soprattutto quando smisero di considerare le donne algerine come vittime civili, iniziando invece a temerle come combattenti nemiche».

Nel suo lungo studio, in cui ricostruisce le diverse fasi della guerra e la progressiva generalizzazione della tortura come mezzo per ottenere informazioni dai prigionieri, l’autrice mostra che il ricorso alla violenza non era un’esclusiva dei militari di carriera o degli specialisti della guerra controrivoluzionaria, ma una pratica che coinvolgeva ampiamente i soldati di leva. E naturalmente viene da chiedersi come mai dei giovani normali nella vita civile potessero trasformarsi in aguzzini in divisa.

«Bisogna ricordare che quella d’Algeria fu una guerra coloniale», risponde la studiosa. «I francesi, soldati o no, si consideravano superiori agli algerini, la loro era la tipica mentalità coloniale in cui era presente un razzismo diffuso che evidentemente facilitava l’accettazione di tali comportamenti. Gli algerini erano considerati inferiori, quindi la tortura appariva loro meno grave.Inoltre, bisogna tenere presente il contesto autoritario di un esercito in guerra, dove l’indottrinamento era molto forte e la libertà di scelta dei soldati ridotta al minimo. Inoltre, i vertici militari dell’epoca avevano elaborato una strategia che implicava la generalizzazione della tortura. I soldati subivano pressioni molto forti, avevano paura, torturavano e violentavano pensando di ottenere delle informazioni capitali, ma in realtà quelle brutalità servivano solamente a terrorizzare le popolazioni e a imporre il potere della Francia».

Secondo Pierre Vidal Naquet – che oggi ripubblica il suo famoso atto d’accusa intitolato Les crimes de l’armée française – il lavoro della Branche esemplica perfettamente il passaggio «dalle testimonianze alla storia», un passaggio che consente un approccio dei fatti meno polemico e più obiettivo. Per l’autrice di La torture et l’armée, «per molti anni è stato praticamente impossibile parlare della tortura in Algeria, perché chiunque denunciasse quei fatti era considerato un nemico della patria. All’epoca, inoltre, a differenza di quanto avviene oggi, si teneva poco conto dei diritti dell’uomo. Non a caso, quando De Gaulle fece mettere fine alla tortura, lo fece per delle ragioni politiche e non certo per rispetto dei diritti umani. Da allora, non si è più voluto affrontare questo argomento scottante. Oggi però mi sembra che il contesto stia finalmente cambiando e che nella società francese ci sia maggiore attenzione».

Che il clima sia mutato lo prova anche l’indignazione suscitata da Services spéciaux, il libro nel quale il generale Paul Aussaresses, che all’epoca dirigeva un reparto incaricato delle «operazioni speciali», ha raccontato senza l’ombra di un pentimento la tortura e le esecuzioni sommarie durante la battaglia d’Algeri. La giustizia francese si è però rifiutata di aprire contro di lui un procedimento per crimini contro l’umanità, come invece invocavano a gran voce alcune associazioni tra cui la Federazione Internazionale dei Diritti dell’uomo.

«Personalmente non credo che la soluzione giuridica sia la scelta migliore», conclude la Branche. «Anche perché i crimini commessi in Algeria sono certamente dei crimini di guerra, ma non necessariamente dei crimini contro l’umanità, stando almeno alla definizione oggi in vigore nel diritto. Ciò che invece mi sembra più che mai necessario è un dibattito politico e una presa di posizione ufficiale della stato francese che riconosca le proprie responsabilità. La Francia, infatti, non ha mai voluto prendere posizione su quegli avvenimenti, che peraltro ha qualificato ufficialmente come “guerra” solamente due anni fa. Il riconoscimento politico delle responsabilità dello stato nella tortura è necessario per voltare pagina, ma nessuna delle forze politiche francesi mi sembra pronta a questo passo».

 

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