Egitto, democrazia in saldo

PER IL DIBATTITO Se l’Europa piange, l’Egitto singhiozza Seppure in un passato ormai lontano, le vecchie democrazie europee qualche buon frutto lo hanno elargito, la nuova democrazia egiziana ha saputo offrire solo frutti avvelenati.el giro di pochi giorni, la democrazia rappresentativa ha dimostrato di essere solo una foglia di fico che nasconde governi, se non totalitari, sempre più estranei ai cittadini che pretende di rappresentare. Dopo l’Europa è la volta dell’Egitto. L’Egitto moderno è nato nel 1922, prima come regno e, dal 1952, come repubblica. L’av-vento della repubblica avvenne in seguito a una rivolta militare che ebbe un notevole […]
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PER IL DIBATTITO

Se l’Europa piange, l’Egitto singhiozza

Seppure in un passato ormai lontano, le vecchie democrazie europee qualche buon frutto lo hanno elargito, la nuova democrazia egiziana ha saputo offrire solo frutti avvelenati.el giro di pochi giorni, la democrazia rappresentativa ha dimostrato di essere solo una foglia di fico che nasconde governi, se non totalitari, sempre più estranei ai cittadini che pretende di rappresentare. Dopo l’Europa è la volta dell’Egitto.

L’Egitto moderno è nato nel 1922, prima come regno e, dal 1952, come repubblica. L’av-vento della repubblica avvenne in seguito a una rivolta militare che ebbe un notevole sostegno popolare, soprattutto grazie al cosiddetto «socialismo arabo» di cui Nasser fu promotore e che inizialmente assicurò al Paese un promettente decollo economico. La guida politica restava comunque nelle mani dei militari che via via estesero il loro potere dalla sfera politica alla sfera economica, giungendo a controllare circa un quarto del prodotto nazionale.

Benché la vita politica egiziana sia stata fin dall’inizio piuttosto vivace, con la formazione di partiti popolari e operai (nel 1925, fu fondato uno dei principali partiti comunisti del Medio Oriente), la democrazia rappresentativa è stata sempre assai limitata. Solo dopo la «primavera» del 2011, con la deposizione di Mubarak, si sono svolte le vere prime elezioni democratiche della storia egiziana. Tuttavia, gli stessi eventi che portarono all’abbattimento del regime di Mubarak, hanno minato sul sorgere le basi stesse della democrazia rappresentativa, poiché erano il frutto di una società profondamente lacerata dai contrasti sociali.

A infiammare la rivolta erano stati gli operai delle grandi fabbriche, cui fecero seguito il ceto medio rovinato dalla crisi e gli studenti senza prospettive. Ne approfittò la grande borghesia, sempre più insofferente nei confronti del vecchio e corrotto rais. Mubarak non era più in grado di controllare una situazione che stava diventando molto calda nel fuoco della crisi economica, e non solo in Egitto[1].

Piazze piene, urne vuote

Fin dall’inizio, non ci fu alcun entusiasmo per le elezioni, ovunque fu privilegiata la piazza, come luogo di confronto politico.

Nonostante le ostentate file davanti alle urne nella capitale, nel 2012 e 2013, i votanti dei referendum costituzionali non hanno mai raggiunto il 40% degli aventi diritto. Le affluenze delle legislative (54%) e delle prime presidenziali (46% e poi 51%) furono più alte, ma non corrisposero certamente alla strombazzata portata «storica» delle consultazioni.

Nel 2012, l’esponente dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi fu eletto di misura al secondo turno, con il 51,7% dei voti, bruciando sul filo di lana il generale ed ex premier Ahmad Shafiq (48,3%). In realtà, Morsi rappresentava poco più del 25% degli elettori (pari a 13 milioni, su una popolazione di 85 milioni). Dato che sbugiarda i «progressisti» occidentali che paventavano l’islamizzazione della società egiziana, per poi giustificare il golpista Sisi! Sorvolando bellamente sul fatto che i Fratelli Musulmani hanno un’ideologia politica assai variegata, in cui cercano di mixare populismo fondamentalista e tecnocrazia borghese, peggio dell’italica diccì …

Il terzo contendente (escluso al primo turno), il progressista Hamdeen Sabahi, rappresentava poco più del 10% degli elettori (5,2 milioni). Sabahi è l’espressione di una borghesia col fiato corto, nell’impossibilità di sostenere riforme degne di questo nome, stretta com’è tra Fondo Monetario e scioperi… Ha voluto scacciare Mubarak, ma poi non ha saputo che pesci pigliare.

Con il loro risicato consenso, i Fratelli Musulmani stentarono a prendere in mano la situazione, inciampando alle prime difficoltà. E non sapendo come uscirne fuori, hanno finito per riesumare retrive consuetudini religiose, già rigettate dalla piazza, in cui le donne sono protagoniste. In poche parole, un rimedio peggiore del male.

I militari non hanno avuto difficoltà a riprendere in mano il governo, con un colpo di Stato, tutto sommato non eccessivamente cruento, cui i Fratelli Musulmani hanno reagito in modo assai debole. Tenendo conto che nel giro di poche settimane hanno subito 2mila vittime e 16mila arresti.

Un impossibile consenso

A questo punto, i militari dovevano legittimare il loro potere e hanno indetto nuove elezioni presidenziali, candidando l’autore del colpo di Stato, Abdul Fattah Al Sisi, cui si è contrapposto, con scarsissimo successo (al palo con il 5%) il solito Hamdeen Sabahi, candidato di bandiera più che di sostanza della sgangherata borghesia progressista egiziana.

Sisi avrebbe voluto superare i voti ottenuti da Morsi nel 2012. Non c’è assolutamente riuscito, nonostante la martellante campagna per indurre gli egiziani al voto, ricorrendo a lusinghe e minacce (multa di 50 € in un Paese in cui i salari non toccano i 100 € al mese!). Vista la scarsa affluenza, le votazioni sono state prolungate di un giorno, offerto come ferie pagate, nonché trasporti gratis. Nulla da fare … si è schiodata solo una percentuale infima di elettori.

I dati? Come in amore e in guerra, anche in democrazia le balle trionfano. Alcune fonti parlano di poco più del 20% («Corriere della Sera», 29 maggio 2014, p. 19), altre, le più ottimiste, parlano del 40%, «L’Internazionale» si spinge al 46%; comunque sia sono percentuali sempre inferiori al 51,7% del 2012. Prendendo per buono il dato dell’«Internazionale» (il 46%), vuol dire che i votanti sono stati 27 milioni, contro circa 59 milioni di elettori. Coloro che non hanno votato sono la maggioranza assoluta dei cittadini egiziani: 32 milioni. Visto che Morsi nel 2012 fu eletto da 13 milioni di elettori, vuol dire che, questa volta, con il loro appello all’astensione, i Fratelli Musulmani avevano capito l’antifona e hanno fatto di necessità virtù. E allora, che i democratici non ce la menino, tirando in ballo i Fratelli Musulmani, per spiegare l’astensione. Alle radici dell’astensione, c’è una tensione sociale che il compromesso democratico non può ricomporre. Come avviene in molti altri Paesi cosiddetti «emergenti», dal Brasile all’India. E ormai anche in buona parte dell’Europa.

Mitologia democratica …

La moderna democrazia rappresentativa (che non ha nulla a che vedere con la democrazia dell’antica Grecia) si fonda sull’omogeneità del corpo elettorale. Requisito sociale che storicamente si è definito in tempi recenti, nel XVII-XVIII secolo, con la nascita della borghesia e l’affer-mazione del modo di produzione capitalistico, che ha via via posto fine a società contraddistinte da particolarismi e «privilegi». La borghesia ha costituito un blocco sociale omogeneo (o meglio una rete di interessi) attorno al quale si è poi plasmato il moderno Stato nazionale. Il diritto di voto, dapprima limitato alla borghesia, si è progressivamente allargato ad strati sociali subalterni, quanto più la popolazione si riconosceva nei valori fondanti della Nazione, basati sulla proprietà privata, o meglio sull’appropriazione privata, che può essere corretta ma non messa in discussione.

L’estensione del diritto di voto e soprattutto la partecipazione alla vita democratica da parte delle masse, attraverso i partiti popolari e operai, è stata possibile finché il modo di produzione capitalistico si è espanso. Questo è avvenuto nel corso del XX secolo soprattutto nel cosiddetto Occidente, culla del modo di produzione capitalistico. In altri Paesi, in cui il capitalismo è stato surrettiziamente trapiantato, come l’Egitto, la democrazia rappresentativa, nella migliore delle ipotesi, è stata una caricatura della democrazia occidentale. In altri Paesi, come la Cina, la democrazia non è neppure germogliata[2].

… e realtà sociale

Oggi siamo in una fase di declino del modo di produzione capitalistico, e prevalgono le spinte centrifughe, che disgregano il blocco sociale in cui fino a oggi si era riconosciuta la maggior parte della popolazione di grandi e piccoli Stati capitalistici. Dalla disgregazione sociale, discende la crescente disaffezione delle classi subalterne al voto, pilastro della democrazia rappresentativa,.

Abitualmente, di fronte a questo fenomeno, viene contrapposto l’esempio degli Stati Uniti, poiché l’elezione del presidente, pur avvenendo con la partecipazione attorno al 50% degli elettori, non pregiudica la coesione sociale del Paese. È vero, ma la vera vita democratica yankee si svolge soprattutto negli Stati e nelle comunità locali, in particolare nelle piccole contee e nelle cittadine di provincia. Beninteso, da questa felice vita democratica è esclusa la gran massa di emigrati più o meno clandestini (circa 10 milioni) e gli emarginati (poveri, disoccupati e homeless, circa 45 milioni). Come si vede, la democrazia non gode di buona salute neppure nella «fabbrica» che la dovrebbe «produrre ed esportare».

Che la democrazia sia malata se ne stanno rendendo conto molti politologi, tra cui Colin Crouch[3], che pur restando alla superficie del problema, descrive alcuni significativi aspetti dell’attuale degenerazione della dialettica democratica, basata sempre più sull’apparire a scapito dell’essere. Un bel gioco di prestigio che però sta mostrando la corda, come si è visto con il recente flop del mago Berlusca. Non basta raccontar balle, occorre anche dare qualche cosa, come ha fatto Renzi con gli «ottanta denari» … E quando non ci saranno più?

Dino Erba, Milano, 30 maggio 2012

Egitto, democrazia in saldo

 

[1] Le informazioni riguardanti l’Egitto sono tratte da: L’Egitto, il paese-chiave del controllo e del riscatto delle masse arabe, in L’intifada araba e il capitalismo globale, «Il cuneo rosso», a. I, n. 1, luglio 2012, p. 29 e ss.

[2] Per approfondire, cfr. Gilles Dauvé e Karl Nesic, Au-delà de la dèmocratie, L’Harmattan, Paris, 2009.

[3]Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.

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