QUELL’ARTICOLO DEL 1966

Redazione di OperaiContro, tra poco meno di un mese ricorrerà il secondo anniversario della morte di Lucio Magri. Senza volere entrare nella discussione sull’operato del colto giornalista, vorrei unicamente riproporre per il dibattito Operaio questo suo articolo datato 10 gennaio 1996 per il quotidiano “Il Manifesto”. Invito alla lettura anche per capire l’inquietante attualità di quanto scritto in un periodo che ormai potrebbe sembrare un secolo fa. Non per salvare idee e partiti piccolo borghesi, ma per rendere giusto omaggio all’intelligenza e lungimiranza di un fine pensatore, di una Persona con la P maiuscola che viene prima di qualsivoglia […]
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Redazione di OperaiContro,

tra poco meno di un mese ricorrerà il secondo anniversario della morte di Lucio Magri. Senza volere entrare nella discussione sull’operato del colto giornalista, vorrei unicamente riproporre per il dibattito Operaio questo suo articolo datato 10 gennaio 1996 per il quotidiano “Il Manifesto”.

Invito alla lettura anche per capire l’inquietante attualità di quanto scritto in un periodo che ormai potrebbe sembrare un secolo fa.

Non per salvare idee e partiti piccolo borghesi, ma per rendere giusto omaggio all’intelligenza e lungimiranza di un fine pensatore, di una Persona con la P maiuscola che viene prima di qualsivoglia idea o strategia.

Saluti Operai

Il voto

Verso le larghe intese si può essere trascinati controvoglia. E sarebbe un esito catastrofico per tutta la sinistra

Due mesi fa, quando Rifondazione decise di votare la mozione del Polo, un pronunciamento tempestivo di tanti elettori e militanti la convinse a mutar parere. Io credo che oggi occorra qualcosa di analogo, e ancor più forte, per dissuadere il Pds dall’imboccare la strada delle “larghe intese”.
 D’Alema ci ha assicurato, con una lettera sul manifesto, che lui al “governissimo” non ci pensa nemmeno. Non c’è ragione per non credergli. Ma su quella strada si può essere trascinati controvoglia, per la pressione di circostanze e di forze importanti, e con l’illusione di potersi fermare. Se, ad esempio, ora rinasce un governo tecnico ma senza nessun impegno sulla data del voto e anzi parallelamente si avvia con qualche straordinaria procedura (la proposta Amato) una “fase costituente”, è assolutamente improbabile che prima dell’estate si vada a votare. A maggio, infatti, la nuova legge sulla “assemblea costituente” sarà di là da venire. D’altra parte, resi ormai più impegnativi gli obblighi di Maastricht, si dovrà impostare una finanziaria ben più difficile di quella appena varata. Il governo allora chiederà di poterlo fare e lo farà cercando il consenso sui “due fronti”.
 E’ su questo dunque che oggi si discute e si decide . Non se fare le elezioni a marzo, a giugno, con questo governo o uno equivalente. Ma se prolungare l’attuale legislatura il tempo, non breve, necessario per introdurre non piccole innovazioni istituzionali e per concludere con il generale sostegno l’opera di risanamento dei conti pubblici.
La sciagura
 Ebbene, io penso che una tale eventualità, scelta o semplicemente subìta, sarebbe una sciagura per la sinistra e per l’Italia. Per tre semplicissime ragioni di fatto. 1) La nuova destra è per natura e vocazione cosa ben diversa e peggiore dal regime democristiano. Già esprime culture, interessi, valori prodotti da trasformazioni profonde della società italiana e mondiale. Ed è strumento di progetto che quelle trasformazioni portano con sé: la liquidazione del compromesso sociale e delle forme politiche che ancora caratterizzano la democrazia europea. Al tempo stesso, e con questo obiettivo, userà e mobiliterà in chiave individualistica o reazionaria il disagio, l’emarginazione, l’insicurezza che il capitalismo ristrutturato determina sulla società. E’ insomma una minaccia in pieno sviluppo.
 2) Un compromesso con tale destra su un nuovo assetto costituzionale, prima e senza averla battuta culturalmente e politicamente sul tempo, non è possibile o è troppo costoso. Non a caso, per avviarlo, occorre oggi, sul piano del metodo, alterare radicalmente le procedure previste dalla Costituzione per riformarla, e buttarsi nell’avventura di un’assemblea costituente, direttamente eletta, senza sapere nulla sul merito e sulle forze che la governeranno. Dall’altro lato occorre, nel merito, già dall’inizio disporsi allo scambio tra doppio turno elettorale e presidenzialismo: una soluzione che la sinistra ha finora escluso, che sta clamorosamente mostrando i suoi limiti anche in paesi con ben più solide tradizioni democratiche, e in Italia oggi sarebbe solo il primo passo di uno sconvolgimento che non si sa dove, quando e come si concluderà.
 3) Nel frattempo, e questo è il punto più importante e trascurato, la politica economico-finanziaria, che non si può sospendere e anzi nel corso dell’anno arriverà ai suoi nodi decisivi, risulterà fatalmente segnata da due elementi: il prossimo, più pesante intervento sul debito pubblico accentuerà i tagli alla spesa sociale, non potrà aggredire la questione fiscale né invertire la tendenza alla compressione del salario; e invece le politiche attive per l’occupazione, i bisogni collettivi, il governo del mercato, non potranno che essere sacrificati e rinviati a un improbabile “secondo tempo”. In questo parlamento e con una tale maggioranza, la sinistra e il sindacato non sono assolutamente in grado di imporre una svolta al governo né potranno esercitare un’opposizione incisiva. La sinistra si dividerà in modo irreversibile, gli alleati di centro saranno trascinati molte volte “dall’altra parte”, si aprirà una tensione con il sindacato e tra il sindacato e i lavoratori.
 Tutto ciò è così prevedibile, quasi già scritto, che risulta difficile comprendere come l’ipotesi delle “larghe intese” sia stata presa nel Pds in seria considerazione.
L’obiettivo del Pds
 E’ solo una voglia di governo subito e comunque, o una paura compulsiva di perdere lo scontro elettorale? Certamente anche questo c’è, e pesa. Ma c’è qualcosa di più serio e di più profondo.
 Almeno a partire dalla Bolognina, il Pds si è mosso con un obiettivo prioritario: lo “sblocco del sistema politico”, un’alternanza senza una grande molla riformatrice. Alla base di tale strategia vi era un’analisi allora largamente dominante e così sintetizzabile: la crisi italiana è una anomalia rispetto a un’Europa che nuovamente si dispone alla ripresa economica e a una nuova espansione democratica; questa crisi nazionale è anzitutto crisi del sistema politico (spartitorio, clientelare e senza ricambio), di qui dunque occorre partire e Tangentopoli ne offre l’occasione; la crisi del sistema politico è anzitutto connessa alla legge elettorale e all’assetto istituzionale e in quei punti va anzitutto affrontata.
 Questa linea è stata pesantemente sconfitta nel marzo del ’94, ma non è stata sostanzialmente corretta. La gestione più accorta nei rapporti politici e nell’organizzazione, alcuni indovinati passaggi tattici, e alcuni avvenimenti favorevoli, le hanno consentito qualche successo: la conquista di regioni e città, il Pds primo partito, il cartello dell’Ulivo, un po’ di respiro nella situazione economica. La prova di appello sembrava possibile e promettente.
 Negli ultimi mesi invece le cose si sono mostrate, per il Pds, più complicate e nuovamente difficili. Anzitutto sul terreno immediatamente politico. La destra, pur in difficoltà, conserva una tenace maggioranza relativa nel paese. Per vincere le elezioni occorrono i voti di Rifondazione e della Lega, ma nel contempo tale intesa è diventata più difficile, meno presentabile, e non garantisce il dopo. I nuovi alleati di centro appaiono tuttora esangui e tuttavia riottosi, ne occorrono altri (Dini, Di Pietro?) ancora sfuggenti. D’altra parte, e soprattutto, è ormai diventato evidente il fatto che molti tratti della crisi italiana vanno generalizzandosi in Europa; che il risanamento finanziario non è affatto compiuto e i lavoratori ne accettano sempre di meno la logica; che la competitività internazionale, nella sua attuale forma, più che una grande occasione è un capestro stretto intorno al compromesso sociale europeo. Si riapre dunque una sfida, un conflitto di prospettive, al cui centro sono le questioni della produzione e della distribuzione del reddito e che ormai mette in discussione la democrazia effettiva.
 La consapevolezza di tutto ciò comincia ad affiorare nella cultura e nella politica della sinistra europea (dalla Francia, alla Germania, all’Est). Ma raggiunge ormai anche l’Italia. Il convegno di Pontignano ne è stato un timido segnale. Per il fatto stesso di essere stato convocato, e anche per la relazione di D’Alema che, con grande prudenza e senza trarne conseguenze impegnative, correggeva però sostanzialmente la linea di analisi e l’agenda delle priorità rispetto al congresso di luglio e alla parola d’ordine del “paese normale”. Così essa è stata colta e sottolineata in molti interventi pur diversi tra loro (da Trentin, a Reichlin, a Tortorella, a Ingrao, a Rodotà, allo stesso Napolitano).
Una stretta difficile
 Ora una tale conseguenza dovrebbe e potrebbe, in astratto, portare a una correzione di linea politica in una direzione opposta a quella delle larghe intese. Ma di fatto porta il Pds a prendere coscienza della durezza inaspettata del problema cui si trova di fronte e che per troppo tempo non si è attrezzato ad affrontare. Porta, per dirla rozzamente, D’Alema (come, per ragioni opposte, Berlusconi) ad apprezzare meglio non solo i rischi di sconfitta elettorale, ma anche quelli connessi a una eventuale vittoria. Egli scopre non solo che Di Pietro non offre la carta sicura, ma che Dini e Scalfaro sono interlocutori assai poco arrendevoli perché dietro di loro ci sono poteri forti ed esigenti; e scopre soprattutto quanto sarebbe difficile affrontare la prossima finanziaria in prima persona con una destra all’opposizione, i diktat dei mercati e della confindustria, i paletti del sindacato.
 Viene così al pettine il nodo lasciato volutamente aggrovigliarsi. Il fatto grezzo, cioè, di aver lasciato dissolvere l’alleanza progressista e spinto Rifondazione ad andare per una strada dissennata, di non aver legato le nuove alleanze politiche a una vera e mobilitante piattaforma programmatica, di non aver ricostruito un legame di massa sull’onda del movimento di autunno, di aver tenuto nel congelatore l’idea di una sinistra federata. La tentazione di prolungare la legislatura, di realizzare “larghe intese”, di coprirsi stabilmente dietro il governo dei tecnici, di cercare una soluzione nella semplificazione istituzionale, nasce da questa stretta reale e difficile.
 Perciò sono convinto che il Pds non metterà un vero stop su quella china pericolosa se non sarà stimolato, quasi costretto a farlo, dal pronunciamento di forze alla sua base in tutta la vasta area di sinistra critica di cui pure ha bisogno. Ma perciò sono altrettanto convinto che, come nel simmetrico caso di Rifondazione, un tale pronunciamento, per avere efficacia, deve assumere un carattere continuativo, di azione consapevole e organizzata, e soprattutto unire alla critica di occasionali errori risposte positive e credibili ai problemi strategici da cui quegli errori traggono origine.
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