GLI SCHIAVI DEI PADRONI DEL POMODORO

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articolo del 2006 Triangolo della vergogna Il triangolo della vergogna Photo by L’Espresso [k] info Non ci vuole molto per entrare nel mercato piu’ sporco dell’Europa agricola. Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del decreto di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di detenzione per immigrati. E la bicicletta, per scappare il piu’ lontano possibile in caso di pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio controlla la raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a sinistra appena fuori paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio lasciar perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi infilarsi per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo e’ una piccola isola di case nell’agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa d’Avorio, aveva detto che quaggiu’ la raccolta, forse, e’ gia’ cominciata. Lui, che dorme in una buca dalle parti di Lucera, e’ senza lavoro: li a Nord i pomodori devono ancora maturare. Cosi Mahmoud campa vendendo informazioni agli ultimi arrivati in treno. In cambio di qualche moneta. Oggi dev’essere la giornata piu’ torrida dell’estate. Quarantadue gradi, annunciavano i titoli all’edicola della stazione. Sperduta nei campi appare nell’aria bollente una stalla abbandonata. e’ abitata. Sono africani. Stanno riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La segregazione razziale e’ rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono con i rumeni. I bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani. e’ cosi anche nel reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non ha scelta se vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in prestito. Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha denunciato al mondo gli orrori dell’apartheid. “Se sei sudafricano resta pure”, dice Asserid, 28 anni. e’ partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. e’ sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che e’ in Puglia da cinque giorni. Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid ha attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara, la citta’ libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l’Italia. “In Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri per la raccolta dei pomodori. Ecco perche’ sono qui. Questa e’ solo una tappa. Non avevo alternative”, ammette Asserid: “Ma spero di risparmiare presto qualche soldo e di arrivare a Parigi”. Adama, 40 anni, tuareg nigerino di Agadez, ha fatto il percorso inverso. A Parigi e’ atterrato in aereo, con un visto da turista. Poi gli e’ andata male. Dalla Francia l’hanno espulso come lavoratore clandestino. Ed e’ sceso in Puglia, richiamato dalla stagione dell’oro rosso. “Questo e’ l’accampamento tuareg piu’ a Nord della storia”, ride Adama. Ma c’e’ poco da ridere. L’acqua che tirano su dal pozzo con taniche riciclate non la possono bere. e’ inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto e’ uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su materassi luridi buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta euro al mese a testa. Ed e’ gia’ una tariffa scontata. Perche’ in altri tuguri i caporali trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Piu’ i cinque euro al giorno per il trasporto nei campi. Lo si vede subito quanto e’ facile il guadagno per il caporale. Alle due e mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica all’inverosimile. “Davvero questo e’ africano?”, chiede agli altri davanti all’unico bianco. Nessuno sa dare risposte sicure. “Io pago tre euro l’ora. Ti vanno bene? Se e’ cosi, sali”, offre l’uomo, calzoncini, canottiera e sul bicipite il tatuaggio di una donna in bikini ritratta di schiena. Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto di dieci minuti il caporale incassera’ quaranta euro. I ragazzi lo chiamano Giovanni. Loro hanno gia’ lavorato dalle 6 alle 12.30. La pausa di due ore non e’ una cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perche’ rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo, guardando attraverso lo specchietto retrovisore: “Io John e tu?”. Poi avverte: “John e’ bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo…”. Non capisce l’inglese ne’ il francese. E questo basta a far cadere il discorso. Ma il pugnale da sub che tiene bene in vista sul cruscotto parla per lui. Amadou, 29 anni, nigerino di Filingue, rivela lo stato d’animo dei ragazzi: “Giovanni, oggi e’ venerdi e non ci paghi da tre settimane. Ormai stiamo finendo le scorte di pasta. Da quindici giorni mangiamo solo pasta e pomodoro. I ragazzi sono sfiniti. Hanno bisogno di carne per lavorare”. I tre euro l’ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni promette ancora. Quando risponde dice sempre: “Noi turchi”. Anche se la targa della macchina e’ bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo oppure ucraino. “Ti giuro su Dio”, continua il caporale, “oggi arrivano i soldi e vi paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come te a Stornara. Non prendo in giro i miei colleghi”. Giovanni abita alla periferia. Un villino di mattoni sulla destra, a meta’ del rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un’altra stalla pericolante senz’acqua, riempita di materassi e schiavi. Si smette solo quando il sole va a nascondersi dietro i monti Dauni. Michele sta meglio. I rumeni si raccolgono intorno al loro caporale. Giovanni scatta una foto ai suoi ragazzi. Serve per i pagamenti e per scoprire se qualcuno scappa dal gruppo. Poi fa firmare il registro con le ore lavorate. Oggi si finisce prima del solito. Il perche’ lo racconta il caporale ad Amadou, in macchina durante il ritorno: “Ci sono in giro i carabinieri”. Giovanni segnala un campo di pomodori lungo la strada: “Vedi qua? Questo pomeriggio i carabinieri sono venuti a prendere dei miei ragazzi. Io lavoro anche qui. Africani come te e rumeni. Li hanno portati via per il rimpatrio. Ma non avere paura, il campo dove lavorate voi”, dice indicandosi le spalle come se avesse i gradi, “e’ controllato dalla mafia”. Succede spesso quando e’ giorno di paga. A volte sono gli stessi padroni a chiamare vigili, polizia o carabinieri e a segnalare gli immigrati nelle campagne. Basta una telefonata anonima. Cosi i caporali si tengono i loro soldi. E la prefettura aggiorna le statistiche con le nuove espulsioni. Amadou pero’ fa notare che nemmeno oggi i ragazzi verranno pagati: “Tu sei musulmano?”, chiede Giovanni: “Si? Allora io ti giuro su Allah che la prossima settimana vi pago tutti. E se avete bisogno di carne, ti giuro che vi invito tutti a casa mia. Ovviamente la prossima settimana. Quando potrete pagare la carne”. Il 14 maggio 1904 qua vicino la polizia attacco’ una manifestazione di braccianti. C’era anche il giovane Giuseppe Di Vittorio. Morirono in quattro quel giorno. Tra le vittime Antonio Morra, 14 anni, amico d’infanzia del futuro leader sindacale. Adesso le proteste vengono spente prima che possano dilagare. I caporali agiscono come una polizia parallela. Gli imprenditori si rivolgono a loro se ci sono problemi. A cominciare dall’imposizione delle regole: “Domani mattina vengo a prendervi alle cinque”, annuncia Giovanni dopo aver scaricato i suoi passeggeri. Sono quasi le dieci di sera ormai. Calcolando una doccia improvvisata con l’acqua del pozzo e la misera cena, restano appena cinque ore di sonno. I ragazzi africani spiegano subito le sanzioni. Chi si presenta tardi, una volta al campo viene punito a pugni. Chi non va a lavorare deve versare al caporale la multa. Anche se si ammala. Sono venti euro, praticamente un giorno di lavoro gratis. Una cinquantina di chilometri piu’ a nord, stesse storie. La carta stradale indica Villaggio Amendola. Era un borgo agricolo. Ora e’ solo un paese fantasma riempito da immigrati rumeni e bulgari ridotti in schiavitu’. Come l’ex zuccherificio di Rignano o il Ghetto che la sera, al suono della township music, sembra Soweto. Al Villaggio Amendola perfino la chiesa abbandonata e’ stata riempita di materassi. Qui il cento per cento degli abitanti non e’ italiano. Tutti raccoglitori. E tutti stranieri. Tranne una. Giuseppina Lombardo, 51 anni. Viene dalla Calabria. Per gli agricoltori del posto e’ una santa donna. Lei e il suo amico tunisino che si fa chiamare Asis sono capaci di mettere insieme una squadra di raccoglitori di pomodori in meno di mezz’ora. Giuseppina e Asis con gli schiavi ci campano. L’unico pozzo di Villaggio Amendola e’ loro. L’acqua e’ inquinata ma la vendono ugualmente: cinquanta centesimi una tanica da 20 litri. Anche l’unico negozio del borgo e’ loro. Hanno bottiglie di minerale, se uno proprio non vuole perdere la giornata per la dissenteria. E hanno carne e pollame: “A prezzi maggiorati del cento per cento e di dubbia qualita’”, dicono gli abitanti. Non e’ facile infiltrarsi come immigrato in questo ghetto e vincere la paura dei suoi prigionieri. Perche’ Asis, come tutti i caporali, non perdona chi parla. Lui e la sua compagna qui sono l’unica legge. Chi c’era si ricorda bene cosa e’ successo la settimana di Pasqua del 2005. Quel pomeriggio un ragazzo rumeno, 22 anni, arrivato da appena quattro giorni, torna al Villaggio Amendola con i sacchetti della spesa. e’ stato a Foggia e cammina davanti al negozio del caporale con quello che si e’ procurato. Una bottiglia d’olio, un po’ di pasta. Il testimone che parla con ‘L’espresso’ e’ convinto che Asis abbia considerato quel gesto una ribellione al suo controllo. I rumeni raccontano di aver visto poco dopo due uomini affrontare il nuovo arrivato. Uno, secondo i testimoni, e’ parente di Asis. Con una spranga lo centrano in mezzo alla testa. Un colpo solo. Poi trascinano il corpo sanguinante e semisvenuto su un furgone. Nessuno al villaggio rivedra’ piu’ quel ragazzo. Michele ritorna a caricare il rimorchio aiutato da altri rumeni. Ma dopo mezz’ora e’ ancora seduto a terra. Si tiene la testa. Perde molto sangue dal naso. Un suo compagno di lavoro spreme un pomodoro maturo per bagnarli la fronte. Cosa ha fatto lo spiega a Leonardo l’uomo con i baffetti curati: “Ho dovuto spaccargli una pietra in mezzo agli occhi. Ho dovuto. Quello stronzo se l’e’ presa con me perche’ tu prima l’hai picchiato. E poi perche’ stasera non ci sono i soldi per pagarli. Ma che c’entro io? Lui ha raccolto una pietra e io gliel’ho tolta dalle mani. Tu pensa se un rumeno di merda mi deve minacciare”. Leonardo sorride. Si smette solo quando il sole va a nascondersi dietro i monti Dauni. Michele sta meglio. I rumeni si raccolgono intorno al loro caporale. Giovanni scatta una foto ai suoi ragazzi. Serve per i pagamenti e per scoprire se qualcuno scappa dal gruppo. Poi fa firmare il registro con le ore lavorate. Oggi si finisce prima del solito. Il perche’ lo racconta il caporale ad Amadou, in macchina durante il ritorno: “Ci sono in giro i carabinieri”. Giovanni segnala un campo di pomodori lungo la strada: “Vedi qua? Questo pomeriggio i carabinieri sono venuti a prendere dei miei ragazzi. Io lavoro anche qui. Africani come te e rumeni. Li hanno portati via per il rimpatrio. Ma non avere paura, il campo dove lavorate voi”, dice indicandosi le spalle come se avesse i gradi, “e’ controllato dalla mafia”. Succede spesso quando e’ giorno di paga. A volte sono gli stessi padroni a chiamare vigili, polizia o carabinieri e a segnalare gli immigrati nelle campagne. Basta una telefonata anonima. Cosi i caporali si tengono i loro soldi. E la prefettura aggiorna le statistiche con le nuove espulsioni. Amadou pero’ fa notare che nemmeno oggi i ragazzi verranno pagati: “Tu sei musulmano?”, chiede Giovanni: “Si? Allora io ti giuro su Allah che la prossima settimana vi pago tutti. E se avete bisogno di carne, ti giuro che vi invito tutti a casa mia. Ovviamente la prossima settimana. Quando potrete pagare la carne”. Il 14 maggio 1904 qua vicino la polizia attacco’ una manifestazione di braccianti. C’era anche il giovane Giuseppe Di Vittorio. Morirono in quattro quel giorno. Tra le vittime Antonio Morra, 14 anni, amico d’infanzia del futuro leader sindacale. Adesso le proteste vengono spente prima che possano dilagare. I caporali agiscono come una polizia parallela. Gli imprenditori si rivolgono a loro se ci sono problemi. A cominciare dall’imposizione delle regole: “Domani mattina vengo a prendervi alle cinque”, annuncia Giovanni dopo aver scaricato i suoi passeggeri. Sono quasi le dieci di sera ormai. Calcolando una doccia improvvisata con l’acqua del pozzo e la misera cena, restano appena cinque ore di sonno. I ragazzi africani spiegano subito le sanzioni. Chi si presenta tardi, una volta al campo viene punito a pugni. Chi non va a lavorare deve versare al caporale la multa. Anche se si ammala. Sono venti euro, praticamente un giorno di lavoro gratis. Una cinquantina di chilometri piu’ a nord, stesse storie. La carta stradale indica Villaggio Amendola. Era un borgo agricolo. Ora e’ solo un paese fantasma riempito da immigrati rumeni e bulgari ridotti in schiavitu’. Come l’ex zuccherificio di Rignano o il Ghetto che la sera, al suono della township music, sembra Soweto. Al Villaggio Amendola perfino la chiesa abbandonata e’ stata riempita di materassi. Qui il cento per cento degli abitanti non e’ italiano. Tutti raccoglitori. E tutti stranieri. Tranne una. Giuseppina Lombardo, 51 anni. Viene dalla Calabria. Per gli agricoltori del posto e’ una santa donna. Lei e il suo amico tunisino che si fa chiamare Asis sono capaci di mettere insieme una squadra di raccoglitori di pomodori in meno di mezz’ora. Giuseppina e Asis con gli schiavi ci campano. L’unico pozzo di Villaggio Amendola e’ loro. L’acqua e’ inquinata ma la vendono ugualmente: cinquanta centesimi una tanica da 20 litri. Anche l’unico negozio del borgo e’ loro. Hanno bottiglie di minerale, se uno proprio non vuole perdere la giornata per la dissenteria. E hanno carne e pollame: “A prezzi maggiorati del cento per cento e di dubbia qualita’”, dicono gli abitanti. Non e’ facile infiltrarsi come immigrato in questo ghetto e vincere la paura dei suoi prigionieri. Perche’ Asis, come tutti i caporali, non perdona chi parla. Lui e la sua compagna qui sono l’unica legge. Chi c’era si ricorda bene cosa e’ successo la settimana di Pasqua del 2005. Quel pomeriggio un ragazzo rumeno, 22 anni, arrivato da appena quattro giorni, torna al Villaggio Amendola con i sacchetti della spesa. e’ stato a Foggia e cammina davanti al negozio del caporale con quello che si e’ procurato. Una bottiglia d’olio, un po’ di pasta. Il testimone che parla con ‘L’espresso’ e’ convinto che Asis abbia considerato quel gesto una ribellione al suo controllo. I rumeni raccontano di aver visto poco dopo due uomini affrontare il nuovo arrivato. Uno, secondo i testimoni, e’ parente di Asis. Con una spranga lo centrano in mezzo alla testa. Un colpo solo. Poi trascinano il corpo sanguinante e semisvenuto su un furgone. Nessuno al villaggio rivedra’ piu’ quel ragazzo. Lo stesso accade il 20 luglio di quest’anno. Il giorno prima Pavel, 39 anni, ha una discussione con Giuseppina Lombardo. Gli sono caduti quindici euro nel negozio e lei crede che glieli abbia rubati dalla cassa. Pavel in Romania faceva il cuoco per 150 euro al mese. Dal 20 marzo 2004, quando e’ arrivato in Puglia, sopporta violenze e angherie. Lo fa per mandare quanto risparmia alla moglie e alla sua “fata”, la figlia studentessa, che ha 15 anni. Pavel ha braccia veloci. L’anno scorso e’ riuscito a riempire fino a 15 cassoni al giorno: 45 quintali di pomodori, lavorando dall’alba a notte. Con il cottimo a 3 euro a cassone, era una buona paga secondo lui: tolti il trasporto al campo e la tangente per il caporale, Pavel riusciva a guadagnare anche 25 o 30 euro al giorno. Ma il 20 luglio Asis gli impedisce di ripetere il record. Qualcuno gli ha riferito che Pavel ha protestato per la faccenda dei soldi e per lo sfruttamento dei braccianti. Il tunisino lo colpisce nel sonno, in una giornata senza lavoro, alle due del pomeriggio. Pavel si protegge la testa con le braccia. La sbarra di ferro gli rompe le ossa e apre profonde ferite nella carne. Lui e’ sicuro di non essere stato ucciso soltanto per l’intervento dei suoi compagni di stanza. Ma lo lasciano li a sanguinare sul materasso fino all’una di notte. Gli altri stranieri hanno troppa paura di Asis. Anche di chiamare la polizia e correre il rischio di essere rimpatriati. Alle otto di sera qualcuno finalmente telefona di nascosto all’ospedale. L’ambulanza e una pattuglia dei carabinieri, al Villaggio Amendola, arrivano soltanto cinque ore dopo. Cosi e’ andata, secondo la denuncia. Il 31 luglio Pavel viene dimesso dall’ospedale di Foggia. e’ stato operato da appena quattro giorni. Ha quasi due mesi di prognosi. Ferri e chiodi nelle ossa. Le braccia ingessate. Medici e infermieri lo consegnano alla polizia, violando il codice deontologico. E in questura lo trattano da clandestino. Anche se dal primo gennaio 2007 tutti i rumeni potrebbero essere cittadini dell’Unione europea. Con le braccia immobilizzate, Pavel non riesce a impugnare la penna. Il ‘Primo dirigente dottoressa Piera Romagnosi’, siglando la notifica del decreto di espulsione, scrive che lui ‘si rifiuta di firmare’. Anche la prefettura di Foggia va per le spicce: nel decreto di espulsione annota che Pavel e’ ‘sprovvisto di passaporto’. Un’aggravante. Eppure Pavel il passaporto ce l’ha. Alla fine, non trovando alternative, un ispettore gli dona dieci euro. E una macchina della questura lo riporta al Villaggio Amendola. Lo scaricano davanti al negozio di Giuseppina e Asis. Il tunisino se ne occupa subito. Vuole dimostrare a tutti chi comanda. Minaccia Pavel e lui va a rifugiarsi in un casolare a un chilometro dal villaggio. Qualche connazionale gli porta in segreto un po’ di pane e da bere. Dopo nove giorni di dolori e sofferenze un amico rumeno riesce a contattare un avvocato di Foggia, Nicola D’Altilia, ex poliziotto al Nord. L’avvocato trova il casolare. Incontra Pavel e lo riporta immediatamente in ospedale. Le ferite sono infette. Il bracciante rumeno e’ grave. Denutrito. Viene ricoverato per setticemia. Il resto e’ cronaca degli ultimi giorni. Il 21 agosto Pavel e’ di nuovo dimesso dall’ospedale. Va in questura a completare la denuncia contro il caporale tunisino e la sua complice italiana, che era riuscito a presentare al posto di polizia del pronto soccorso soltanto il 14 agosto. Lo accompagna l’avvocato che l’ha salvato. Ma dopo una giornata in questura, la Procura fa arrestare Pavel come immigrato clandestino: non ha rispettato il decreto di espulsione che, cosi e’ scritto, lo obbligava a lasciare l’Italia dall’aeroporto di Roma Fiumicino. Non importa se in quelle condizioni comunque non avrebbe potuto viaggiare. Lo costringono a dormire su una panca di legno nelle camere di sicurezza. Nonostante le operazioni, le ossa rotte e le ferite ancora fresche. Il giorno dopo si apre il processo, immediatamente rinviato a ottobre. Oltre ad aver perso il lavoro, grazie alla legge Bossi-Fini Pavel rischia da uno a quattro anni di prigione. Piu’ di quanto potrebbe prendersi il suo caporale che intanto resta libero. “Quell’uomo”, racconta Pavel terrorizzato, “mirava alla testa. Voleva uccidermi”. Qualche bracciante morto da queste parti l’hanno gia’ trovato. Slavomit R., polacco, aveva 44 anni quando e’ stato bruciato il 2 luglio 2005 in un campo a Stornara. Un caso irrisolto. Come quello di due cadaveri mai identificati abbandonati a Foggia. Le scomparse sono un altro capitolo dell’orrore. Nessuno sa quanti siano i lavoratori rumeni, bulgari o africani spariti. I caporali, quando li ingaggiano o li massacrano di botte, non sanno nemmeno come si chiamano. Gli unici casi sono stati scoperti grazie alle denunce dell’ambasciata di Polonia. Hanno dovuto insistere i diplomatici di Varsavia. e’ dal 2005 che cercano notizie di tredici connazionali. Erano venuti a lavorare come stagionali nel triangolo degli schiavi. E non sono piu’ tornati a casa. L’elenco compilato in agosto dal consolato sulle ricerche delle persone scomparse non rende onore all’Italia. Su dodici “richieste indirizzate alla questura di Foggia”, l’ambasciata ha dovuto prendere atto che per nove casi non c’e’ stata “nessuna risposta da parte della questura”. Dopo mesi di inutile attesa l’appello e’ stato girato al Comando generale dei carabinieri. E, attraverso gli investigatori del Ros, la Procura antimafia di Bari ha finalmente aperto un’inchiesta. Nessuno sta invece indagando sulla morte di un bambino. Perche’ quello che e’ successo apparentemente non e’ reato. Il piccolo sarebbe nato a fine settembre. Liliana D., 20 anni, quasi all’ottavo mese di gravidanza, la settimana di Ferragosto arranca con il suo pancione tra piante di pomodoro. La fanno lavorare in un campo vicino a San Severo. Ne’ il marito, ne’ il caporale, ne’ il padrone italiano pensano a proteggerla dal sole e dalla fatica. Quando Liliana sta male, e’ troppo tardi. Ha un’emorragia. Resta due giorni senza cure nel rudere in cui abita. Gli schiavi della provincia di Foggia non hanno il medico di famiglia. Sabato 18 agosto, di pomeriggio, il marito la porta all’ospedale a San Severo. La ragazza rischia di morire. Viene ricoverata in rianimazione. Il bimbo lo fanno nascere con il taglio cesareo. Ma i medici gia’ hanno sentito che il suo cuore non batte piu’. Anche lui vittima collaterale. Di questa corsa disumana che premia chi piu’ taglia i costi di produzione. L’industria alimentare campana paga i pomodori pugliesi da 4 a 5 centesimi al chilo. Sulle bancarelle lungo le strade di Foggia i perini salgono gia’ a 60 centesimi al chilo. A Milano 1,20 euro quelli maturi da salsa e 2,80 euro al chilo quelli ancora dorati. Al supermercato la passata prodotta in Campania costa da 86 centesimi a 1,91 euro al chilo. I pelati da 1,04 a 3 euro al chilo. Eppure, nel ghetto di Stornara, nemmeno stasera che il mese e’ quasi finito ci sono i soldi per comprare un pezzo di carne. “Donald, non te ne andare”, si fa avanti Amadou, “Giovanni e’ molto arrabbiato con te perche’ hai lasciato il gruppo. Ti sta cercando, vado a dirgli che sei qui”. Nel fondo di questa miseria, Amadou sa gia’ con chi stare. Tra tanti uomini costretti a inginocchiarsi, lui ha scelto i caporali. e’ il momento di prendere la bici e scappare. Nel buio. Prima che Giovanni decida di chiamare i suoi sgherri. E di dare il via alla caccia nei campi. Fabrizio Gatti (2006)]]>

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