MOGADISCIO UN ANNO DOPO

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Somalia – 28.12.2007

Un anno fa, le truppe etiopi entravano a Mogadiscio quasi senza colpo ferire, conquistando, in nome del governo di transizione somalo, una citta’ abbandonata dalle milizie delle Corti islamiche fuggite nel sud. Quella che, nelle intenzioni ufficiali delle autorita’ etiopi, doveva essere una breve campagna, si e’ trasformata in un pantano dal quale i soldati di Addis Abeba non riescono ad uscire. Una trappola dalla quale, secondo le previsioni, gli etiopi non si libereranno tanto in fretta.

Pantano. Dopo mesi di dichiarazioni ottimistiche, poche settimane fa il premier etiope Meles Zenawi ha ammesso quanto gli analisti andavano sostenendo da tempo: al momento, le truppe etiopi non possono lasciare il Paese per non farlo precipitare nel caos. Non che ora il quadro sia molto piu’ roseo: 600.000 somali costretti a fuggire da Mogadiscio dall’inizio dell’anno, in coincidenza con uno dei peggiori raccolti della storia del Paese che fa balenare il serio rischio di una carestia; e le agenzie umanitarie che si riaffacciano timidamente in Somalia dopo anni di assenza, senza riuscire a raggiungere buona parte degli sfollati, abbandonati a se stessi.
A Mogadiscio, termometro della vita politica e militare somala, gli scontri tra gli eserciti somalo ed etiope da una parte e gli insorti vicini alle Corti islamiche dall’altra proseguono, a riprova che le varie operazioni di sicurezza lanciate dalle forze dell’ordine negli ultimi mesi non sono servite a nulla.

Alleati. Gli insorti, nonostante le loro differenze interne, si sentono piu’ forti che mai, soprattutto ora che l’Etiopia ha le mani legate, minacciata com’e’ da una ancora improbabile (ma possibile) ripresa della guerra con l’Eritrea e dal conflitto (quest’ultimo concreto) con i ribelli della regione dell’Ogaden. In questa situazione, il sostegno degli alleati internazionali vale ben poco: stretta tra un governo, quello somalo, che non ha la forza per controllare il proprio territorio e un alleato, quello americano, che non si vuole impegnare piu’ di tanto nel Corno d’Africa, preso com’e’ dalle crisi in Iraq e in Afghanistan e Pakistan, l’Etiopia si trova da sola a fronteggiare una ribellione strisciante e difficile da combattere, tra una popolazione ostile che non ha mai visto di buon occhio l’entrata dell’Etiopia nella crisi somala.
A poco vale l’invio, tardivo e insufficiente, di 200 soldati provenienti dal Burundi, andati a rimpinguare la scarna missione di pace dell’Unione Africana, orfana dei tre quarti delle truppe inizialmente promesse. Oltre ai 1.600 soldati ugandesi e ad altri 600 burundesi, il cui arrivo e’ previsto per gennaio, non si hanno notizie degli altri contingenti.

Passato. Chissa’ se, a un anno di distanza, Zenawi si sia pentito dell’invasione, decisa senza l’avallo degli Usa, come hanno recentemente confermato fonti militari di Washington e Addis Abeba. Certo, la retorica bellicosa delle Corti islamiche, che avevano lanciato una jihad contro l’Etiopia, ha fatto la sua parte nel gettare benzina sul fuoco. Ma se i vecchi nemici si sono dissolti, lasciando il controllo di Mogadiscio al governo somalo alleato, non per questo la situazione e’ migliorata. I soldati etiopi sono costretti a una lunga guerra di logoramento, fatta di attentati mirati alle forze di sicurezza e brevi scontri con un nemico che si nasconde tra la gente. Una guerra difficile da perdere, ma impossibile da vincere.
Matteo Fagotto

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