OPERAI E DEBITO PUBBLICO

Si dice che i lavoratori che debutteranno nella vita attiva fra vent’anni si troveranno a dover ripianare un debito pubblico che supererà i 103 mila euro a testa nel 2040. Una follia, un vero cappio al collo che stroncherebbe ogni speranza a qualsiasi debitore. Il Debito pubblico è come uno spettro che aleggia minaccioso sulle nostre teste. Rimane nascosto. Per mesi nessuno ne fa parola, ma non appena le richieste della collettività si fanno insistenti e le rivendicazioni acquistano carattere di emergenza, ecco che riemerge, sempre più grande, come un verme solitario piazzatosi nel ventre del paese. E subito […]
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Si dice che i lavoratori che debutteranno nella vita attiva fra vent’anni si troveranno a dover ripianare un debito pubblico che supererà i 103 mila euro a testa nel 2040. Una follia, un vero cappio al collo che stroncherebbe ogni speranza a qualsiasi debitore.
Il Debito pubblico è come uno spettro che aleggia minaccioso sulle nostre teste. Rimane nascosto. Per mesi nessuno ne fa parola, ma non appena le richieste della collettività si fanno insistenti e le rivendicazioni acquistano carattere di emergenza, ecco che riemerge, sempre più grande, come un verme solitario piazzatosi nel ventre del paese. E subito si alza minacciosa la voce dei virtuosi del debito. Non si può ridurre il prelievo fiscale, non si può ridurre l’età pensionistica, non si può concedere nulla: il debito è lì, pronto a ricattarci, a ricordarci che siamo un popolo di spendaccioni, che viviamo al di sopra delle nostre possibilità. È come aver commesso il peccato originale di Adamo ed Eva: saremo costretti a espiarlo attraverso la sofferenza e la rinuncia, e a vivere con questo fardello per tutto il resto della nostra esistenza.
Quando poi qualcuno sulla spinta delle promesse elettorali, sembra che voglia mettere mano al portafoglio e spendere qualche soldo, spuntano come funghi i cavalieri del debito pronti a difendere ogni tentativo di incrementarlo dal lato della spesa sociale, mentre nulla hanno da dire quando il governo di turno finanzia la ristrutturazione o il salvataggio di imprese come Alitalia, o quando destina 20 miliardi di euro per evitare alle banche il fallimento o, peggio, quando decide di regalare gli asset produttivi più redditizi come la rete autostradale, alle grandi famiglie dell’imprenditoria italiana.
Ridurre il debito attraverso l’avanzo di bilancio diventa così il mantra ossessivo dei nuovi lanzichenecchi al servizio del capitale finanziario che ricattano la popolazione sulla scorta dei desideri delle grandi imprese nazionali. Il successo mediatico di Cottarelli fa parte di questa strategia e di fronte ai numeri implacabili dell’esposizione debitoria italiana sembra che tutto sia precluso.
Ma come si è formato questo enorme debito? È una prerogativa tutta italiana?
Il sistema del debito pubblico, cioè dei debiti contratti dallo stato per far fronte alle sue spese, non è un privilegio dei nostri giorni. Nasce fin dal Medioevo nelle città mercantili come Genova e Venezia e ben presto si diffonde in tutta l’Europa durante il passaggio dal sistema feudale a quello capitalistico. Il debito pubblico è stato la levatrice delle società per azioni, del commercio di effetti negoziabili di ogni tipo facendo nascere il gioco di Borsa e il sistema bancario moderno.
Da quando la borghesia è diventata classe dominante, attraverso il sistema del debito pubblico le classi più ricche della finanza e dell’industria si sono appropriati il controllo e la gestione della ricchezza e del sistema fiscale realizzando la svendita dello Stato. I beni della collettività, di proprietà sociale, vengono così distribuiti tra banchieri, finanzieri e tagliatori di cedole che hanno la sola fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
In Italia il debito pubblico è composto all’83% da titoli di Stato ed è detenuto per il 94% dai grandi investitori nazionali e internazionali, come banche d’affari, Fondi Pensione e d’investimento, assicurazioni, grandi imprese industriali e Banca d’Italia, che è comunque di proprietà privata di alcuni istituti finanziari. Questo spiega come mai negli anni passati, funzionari della Banca d’Italia come C.A. Ciampi e Lamberto Dini o del Fondo Monetario Internazionale come Pier Carlo Padoan, siano passati a gestire direttamente l’amministrazione dello Stato e come tanti politici che sono transitati nei vari ministeri economici siano poi stati assorbiti in posti chiave nel sistema bancario. La parte del debito detenuto dalle famiglie quindi, è pari solo al 6%. Ma sono comunque famiglie con un tenore di reddito medio alto.
Tutti questi pescecani, strillano e chiedono il pareggio di bilancio, impedendo ogni redistribuzione della ricchezza ma in realtà non hanno alcun interesse alla riduzione del debito. Anzi! Tanto più la situazione di incertezza gravita intorno allo Stato, tanto più guadagnano enormi plusvalenze sul rialzo dei tassi di interesse e dello spread.
Tanto più il Paese è indebitato, tanto più i vampiri della finanza che vivono di rendita con i titoli di Stato e che spingono per ulteriori indebitamenti, si arricchiscono. In Italia dal 2007 al 2016 sono stati pagati la bellezza di 760 miliardi di euro di interessi sul debito. Solo nel 2017 il salasso è stato di 65 miliardi. Quasi un euro su venti di ricchezza prodotta ogni anno se ne va per pagare i creditori, una percentuale più elevata di quella spesa per l’istruzione. Una cifra mostruosa che dimostra come lo Stato sia completamente in balia di usurai senza scrupoli. Una situazione senza uscita che solo gli operai al potere potranno spezzare.
F.A.

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