Thyssen, nella fabbrica della morte dieci anni dopo

“Non voglio morire! Non voglio morire!”. Le grida degli operai della Thyssenkrupp, divorati dalle fiamme la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, risuonano nitide nella registrazione della telefonata al 118. “C’è stato un incendio. Abbiamo cercato di spegnerlo: senza riuscirci, senza niente. I ragazzi sono bruciati”, urla chi chiama i soccorsi. Quei lamenti, quegli strilli di dolore, quelle richieste disperate d’aiuto sembrano riecheggiare ancora adesso nel capannone dello stabilimento siderurgico torinese. Da tre anni, in corso Regina 400, vanno avanti le operazioni di pulizia e di messa in sicurezza. Gli addetti ai lavori hanno lavato i […]
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“Non voglio morire! Non voglio morire!”. Le grida degli operai della Thyssenkrupp, divorati dalle fiamme la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, risuonano nitide nella registrazione della telefonata al 118. “C’è stato un incendio. Abbiamo cercato di spegnerlo: senza riuscirci, senza niente. I ragazzi sono bruciati”, urla chi chiama i soccorsi. Quei lamenti, quegli strilli di dolore, quelle richieste disperate d’aiuto sembrano riecheggiare ancora adesso nel capannone dello stabilimento siderurgico torinese.

Da tre anni, in corso Regina 400, vanno avanti le operazioni di pulizia e di messa in sicurezza. Gli addetti ai lavori hanno lavato i pavimenti, smontato i carroponti, chiuso la maggior parte delle buche che una volta ospitavano le macchine. Tutto è stato smaltito, tutto è stato venduto. Compreso l’impianto di laminazione della linea 5, che otto mesi fa è stato portato via.

Lì, dove quella notte si è consumato il dramma, ci sono le transenne. L’area è stata recintata. Ma per vedere i segni delle fiamme basta alzare lo sguardo alle pareti, ai tubi. Impossibile non sentire l’odore di olio bruciato. E’ intenso. Impregna i vestiti. Impossibile mandarlo via. Com’è impossibile cancellare quella tragedia, non nominarla quando si parla della “fabbrica dei tedeschi”. “Il 90% dei manager è cambiato”, spiegano dalla multinazionale. “Stiamo lavorando per andare avanti bene, per migliorarci. La maggioranza di noi è nuova. Ma, anche chi non c’era, non può non fare i conti con quello che è successo dieci anni fa”.

Gli SpurgoJet entrano ed escono dallo stabilimento: c’è chi pulisce con la pompa, chi raccoglie le masserizie, chi le prepara per lo stoccaggio. “In un anno dovrebbe essere finito tutto, poi si vedrà”, dicono alla Thyssen. Hanno messo un servizio di sorveglianza 24 ore su 24, sette giorni su 7, con la portineria che prevede un servizio di ronde mobili, due durante il giorno e quattro di notte. Controllano, per evitare che qualcuno si intrufoli: qualche ragazzino, qualche spacciatore.

In otto mesi, sedici persone sono state segnalate alle forze dell’ordine. Hanno sfondato qualche muro, preso a pietrate qualche finestra, privi di rispetto anche per la morte che quel luogo rievoca. Nel capannone di oltre 500 metri quadrati si cerca di fare ordine. Anche alla linea 5, quella che – si diceva – si occupasse della finitura migliore. “E’ un lavoro lungo”, sottolinea un consulente. “Non metta il nome, non mi va”, si preoccupa. Lui lavora alla Thyssen dal 1979, “quando ancora c’erano un migliaio di persone”. Dopo è diventato gestore, ma prima era responsabile della manutenzione. “Chi è sopravvissuto alle fiamme racconta di innumerevoli problemi, di grosse mancanze”. Il tono si fa schivo, la fronte si corruga: “signorina, guardi che qui non c’era proprio nulla che non andasse. Né alla linea 5, né alle altre linee”.

Ai pilastri sono ancora appesi i cartelli: “Attento, hai le scarpe antisdrucciolo”, “attento, usa il caschetto”. E quello, fuori dal capanno, al ‘posto numero 7’: “ritrovo ambulanza per soccorsi in casi gravi”.

ANSA

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