I lager sdoganati da Minniti

Caro Operai Contro, come hai denunciato in questi giorni, Minniti agente speciale dell’imperialismo italiano nonché ministro del governo Gentiloni, ha incontrato il generale Khalifa Haftar l’uomo forte della Cirenaica, che afferma di «controllare ormai oltre il 70 per cento del territorio libico». Nell’incontro Minniti ha sdoganato i lager in Libia per i migranti, ostacolando l’emigrazione verso l’Europa. Per la rapina del petrolio libico e la caccia ai migranti che vogliono venire in Europa, Khalifa Haftar per la Cirenaica, e Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj insediato a Tripoli, hanno ribadito di volere soldi e armi. Qui sotto allego un articolo sui lager […]
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Caro Operai Contro,

come hai denunciato in questi giorni, Minniti agente speciale dell’imperialismo italiano nonché ministro del governo Gentiloni, ha incontrato il generale Khalifa Haftar l’uomo forte della Cirenaica, che afferma di «controllare ormai oltre il 70 per cento del territorio libico». Nell’incontro Minniti ha sdoganato i lager in Libia per i migranti, ostacolando l’emigrazione verso l’Europa. Per la rapina del petrolio libico e la caccia ai migranti che vogliono venire in Europa, Khalifa Haftar per la Cirenaica, e Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj insediato a Tripoli, hanno ribadito di volere soldi e armi. Qui sotto allego un articolo sui lager dei migranti i Libia.

Saluti da un lettore

 

Allego un articolo dell’Espresso.

La costa dei lager: i centri di detenzioni dei migranti in Libia, dove neanche l’Onu entra

In Libia ce ne sono ormai dozzine. Ufficiali, gestiti da milizie vicine al governo. E segreti, in mano alle bande di trafficanti di armi e droga. Le tribù hanno capito che tenere i migranti sotto chiave è un guadagno proprio come farli partire. Il reportage dell’Espresso da Zawhia (Libia)

Zawhia? «Appartiene alla Libia solo sulla carta, ma in realtà ha le sue leggi, è uno stato a se stante». Mahmoud ha quasi quarant’anni, lavora per una società che si occupa della sicurezza delle aziende straniere a Zawhia, città nella parte occidentale della Libia, a circa 50 chilometri dalla capitale Tripoli. Siamo nella parte di paese solitamente indicata come “controllata dal governo di al-Sarraj”, quello riconosciuto internazionalmente, ma che invece è in mano a milizie contrapposte e bande armate che si spartiscono tutti i traffici illegali, compreso quello dei migranti.

Anche per percorrere le cinquanta miglia che separano Tripoli da Zawhia è meglio andare in barca, via mare: in automobile è troppo pericoloso. La strada costiera, rimasta chiusa più di due anni per gli scontri tra milizie rivali, ora è di nuovo aperta, ma una delle tribù della zona, quella dei Warshafana, organizza check point improvvisati per rapire le persone – e naturalmente gli stranieri valgono di più.

Quando arriviamo al porto di Zawhia, intorno a noi il silenzio è irreale. Sul pontile ci sono una manciata di pescatori: puliscono le barche, rimettono in ordine le reti. Non c’è traccia della guardia costiera e non ci sono più i volti noti del contrabbando che qui era facile incontrare fino a poche settimane fa. Non c’è traccia nemmeno dei migranti africani, che prima affollavano il porto. Un uomo di Sabratha, città vicina e anch’essa tristemente nota per il traffico di uomini, sorride: «Se pensate che il traffico si sia davvero bloccato, siete solo illusi. I trafficanti si stanno solo riorganizzando. Molti di loro si stanno spostando nella zona di Garabulli, un centinaio di chilometri più a est. Alcuni stanno solo aspettando qualche settimana per riorganizzare i viaggi non più con i gommoni ma con le grandi navi di legno che contengono più migranti».

Lungo la strada che porta al centro di detenzione di Zawhia, l’autista ha mille occhi, si guarda intorno come se fossimo sempre sul punto di incontrare le bande armate. Che hanno le mani su qualsiasi cosa e gestiscono il centro di detenzione illegale della zona. Quello inaccessibile: sia ai giornalisti sia alla polizia sia alle organizzazioni umanitarie.
Nel centro di detenzione “ufficiale” sono rinchiuse circa 1.100 persone, quasi tutti uomini, divisi in gruppi da 100 o 200 persone per stanza. Una delle guardie apre il lucchetto della cella, e gli occhi dei ragazzi incrociano i nostri, in cerca di aiuto, in cerca di risposte. John è uno dei detenuti, viene dal Gambia. «Non viene mai nessuno qui, nemmeno le Ngo. Siamo completamente abbandonati. I libici ci trattano bene solo quando arriva qualche giornalista come voi, ma appena la porta alle vostre spalle si chiude noi torniamo ad essere meno che animali. E nessuno ci dice che ne sarà di noi, fino a quando staremo rinchiusi qui e perché». Accanto a lui c’è Alizar, 17 anni, eritreo, uno tra le centinaia di migliaia di minori che fuggono dai loro paesi da soli e restano incastrati nell’inferno libico. Alizar è orfano, non riesce a lasciare la Libia e comunque non potrebbe tornare nel suo Paese, perché in Eritrea la leva è obbligatoria anche per i ragazzi giovanissimi e lui ormai è un disertore. Se tornasse, sarebbe ucciso.

Lasciamo Zawhia alzando gli occhi verso la raffineria sullo sfondo, il fumo, la fiamma, che sono simboli della ricchezza del paese, verso un’altra prigione di migranti, quella di Surman. Da Zawhia dista pochi chilometri, ma bisogna percorrere strade secondarie per evitare check point e sottrarci alle milizie di zona: ce ne sono decine, specializzate nell’assaltare e rubare i mezzi blindati o nei rapimenti i locali. E poi ci sono le milizie islamiche: sono poche, nascoste, tuttavia molto pericolose.

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