Protezionismo preventivo per prevenire il protezionismo?

Caro Operai Contro, l’articolo del Sole 24 ore somiglia a un gatto che si morde la coda. Come riassume clamorosamente il titolo: “Il lavoro va protetto dal rischio protezionismo”. Dice che i politici americani ed europei farebbero bene ad affrontare i problemi “che minacciano di esercitare una forte pressione al ribasso sui salari a livello mondiale”, spingendo sull’acceleratore del protezionismo commerciale, la cui lunga storia ha dimostrato che: “i maggiori beneficiari sono i ricchi e coloro che hanno legami con la politica, mentre gli sconfitti sono i consumatori che pagano prezzi più alti”. L’autore dimentica che insieme ai “salari […]
Condividi:

Caro Operai Contro,

l’articolo del Sole 24 ore somiglia a un gatto che si morde la coda. Come riassume clamorosamente il titolo: “Il lavoro va protetto dal rischio protezionismo”. Dice che i politici americani ed europei farebbero bene ad affrontare i problemi “che minacciano di esercitare una forte pressione al ribasso sui salari a livello mondiale”, spingendo sull’acceleratore del protezionismo commerciale, la cui lunga storia ha dimostrato che: “i maggiori beneficiari sono i ricchi e coloro che hanno legami con la politica, mentre gli sconfitti sono i consumatori che pagano prezzi più alti”. L’autore dimentica che insieme ai “salari a livello mondiale” gli operai vengono colpiti da un maggior sfruttamento, mentre ne riconosce le ondate di licenziamenti e la mina vagante della crescente disoccupazione, senza fare cenno alle catastrofi delle guerre. Un articolo che insieme al problema, pone interrogativi ma non offre né soluzioni, né alternative.

Come scriveva ieri Operai Contro: “O la guerra farà da miccia della rivolta operaia, o la rivolta operaia fermerà gli imperialisti”. Per gli operai la necessità di organizzarsi in un proprio partito è inderogabile.

Saluti O. V.

 

Allego da Il sole 24 ore del 7 AGOSTO 2017

Il lavoro va protetto dal rischio protezionismo di Kenneth Rogoff

(Traduzione di Federica Frasca) |

Mentre si preoccupano per il futuro dei posti di lavoro di qualità, i politici americani ed europei farebbero bene a considerare i problemi ben più grandi che si trovano ad affrontare i Paesi asiatici in via di sviluppo – problemi che minacciano di esercitare una forte pressione al ribasso sui salari a livello mondiale.

In India, dove il reddito pro capite è pari a circa un decimo di quello statunitense, ogni anno più di dieci milioni di persone lasciano le campagne per riversarsi nelle aree urbane, dove spesso non riescono a trovare lavoro nemmeno come chaiwalas, cioè venditori di tè, figuriamoci come programmatori. La stessa ansia che gli americani e gli europei hanno riguardo al futuro dell’occupazione è di un ordine di grandezza superiore in Asia.

L’India dovrebbe, forse, ispirarsi al tradizionale modello industriale lanciato dal Giappone, che tanti altri, compresa la Cina, hanno seguito? E dove può portarla tutto ciò se, nell’arco dei prossimi due decenni, l’automazione è destinata a rendere obsoleta la maggior parte di questi mestieri?

C’è, naturalmente, il settore dei servizi, che nelle economie avanzate dà lavoro all’80% della popolazione, e in cui l’outsourcing indiano continua a occupare il primo posto nella classifica mondiale. Purtroppo, anche lì il futuro è tutt’altro che roseo. I sistemi automatizzati di chiamata hanno già soppiantato una quota notevole dell’attività globale dei call center, e molti lavori di programmazione stanno anch’essi perdendo terreno per la concorrenza dei computer.

I progressi dell’economia cinese saranno stati pure la storia di successo degli ultimi trent’anni, ma anch’essa affronta sfide simili. Pur essendo molto più urbanizzata dell’India, anche la Cina sta cercando di portare dieci milioni di persone nelle città ogni anno. Tra i posti di lavoro persi a causa dell’automazione e della concorrenza di Paesi con un livello salariale più basso, come il Vietnam e lo Sri Lanka, lo sforzo di integrazione di nuovi lavoratori diventa sempre più arduo.

Un aumento del protezionismo a livello globale ha peggiorato ulteriormente questa difficile situazione, come dimostra la decisione di Foxconn (uno dei principali fornitori di Apple) di investire 10 miliardi di dollari in un nuovo impianto in Wisconsin. Effettivamente, i 13mila nuovi posti di lavoro creati negli Usa sono una goccia nel mare in confronto ai 20 (o più) milioni di posti che l’India e la Cina devono creare ogni anno, o anche rispetto ai due milioni di posti che servono agli Stati Uniti.

Gli Usa e l’Europa potrebbero avere la possibilità di rendere il commercio più giusto, come Trump dice di voler fare. Per esempio, molte acciaierie cinesi sono dotate di dispositivi anti-inquinamento all’avanguardia, che però possono essere spenti per risparmiare sui costi. Quando il risultato è che l’eccesso di produzione si riversa sui mercati globali, causando un crollo dei prezzi, la decisione di adottare delle contromisure da parte dei Paesi occidentali è pienamente giustificata. Purtroppo, la lunga storia del protezionismo commerciale svela che raramente esso assume la forma di un intervento mirato. Molto più frequentemente, i maggiori beneficiari sono i ricchi e coloro che hanno legami con la politica, mentre gli sconfitti sono i consumatori che pagano prezzi più alti.

I Paesi che si spingono troppo oltre nel chiudersi alla concorrenza straniera finiscono per perdere il loro vantaggio con ripercussioni negative su innovazione, occupazione e crescita. Brasile e India, per esempio, hanno sempre sofferto di questa chiusura commerciale, sebbene negli ultimi anni vi siano stati dei cambiamenti nella direzione opposta.

Un altro problema è che da tempo la maggior parte delle economie occidentali è diventata profondamente interdipendente nelle catene di fornitura globali. Persino l’amministrazione Trump è dovuta tornare sui suoi passi riguardo all’ipotesi di uscire dal Nafta, l’accordo nordamericano sul libero scambio, quando si è finalmente resa conto che molte delle importazioni statunitensi dal Messico hanno un notevole contenuto americano. Innalzare elevate barriere tariffarie potrebbe comportare la perdita di posti di lavoro tanto americani quanto messicani. E, naturalmente, se gli Usa dovessero incrementare drasticamente i propri dazi sulle importazioni, una grossa parte dei costi ricadrebbe sui consumatori sotto forma di aumenti dei prezzi.

Il commercio è anch’esso destinato a pervadere sempre di più il settore dei servizi. Il “Turco meccanico” di Amazon (che prende il nome da un automa del XVIII secolo capace di giocare a scacchi da solo, ma che in realtà nascondeva una persona in carne e ossa al suo interno) è un esempio di una nuova piattaforma che consente agli acquirenti di commissionare micro-attività specifiche (per esempio, di programmazione o trascrizione dati) per una paga da Terzo mondo. L’arguto slogan di Amazon è “Artificial artificial intelligence” (Intelligenza artificiale artificiale).

Anche se i protezionisti riuscissero a bloccare l’outsourcing delle mansioni, quale sarebbe il prezzo da pagare? Sicuramente le piattaforme di servizi online devono essere regolamentate, come ha dimostrato l’esperienza di Uber. Ma, dato l’elevato numero di nuovi posti di lavoro che India e Cina devono creare ogni anno e con internet che resta altamente permeabile, è una follia pensare che le economie avanzate possano dare un drastico giro di vite alle esportazioni di servizi.

Come dovrebbero affrontare i Paesi l’inarrestabile avanzata della tecnologia e del commercio? Nel prossimo futuro, migliorare le infrastrutture e l’istruzione può produrre ottimi risultati. Mentre all’indomani della crisi finanziaria del 2008 il resto del mondo annaspava, la Cina non ha mai smesso di ampliare le sue vaste catene logistiche e di fornitura.

In un mondo dove è alta la probabilità che le persone siano costrette a cambiare lavoro di frequente e talvolta in modo radicale, servono grandi cambiamenti nella formazione degli adulti, soprattutto mediante l’apprendimento online.

Infine, ma non meno importante, i Paesi devono puntare a una redistribuzione più forte attraverso le tasse e i trasferimenti. Le tradizionali politiche commerciali populiste, come quelle abbracciate da Trump, non hanno funzionato granché in passato e probabilmente funzioneranno ancora meno adesso.

Condividi:

Comments Closed

Comments are closed. You will not be able to post a comment in this post.